18.8.13

Continuità italiane. Noi dilettanti in guerra (Gianni Rocca)

Alla vigilia dei settant’anni da quel 24 maggio in cui il Piave mormorava “la Repubblica” pubblicò tra gli altri articoli sull’argomento questo di Gianni Rocca. L’autore, acuto giornalista, stabilisce un confronto tra quell’ingresso in guerra dell’Italia e quel 10 giugno 1940 in cui Mussolini intimò al popolo italiano di “correre alle armi”, giungendo per questa via a fissare alcune “continuità” della storia italiana e delle sue classi dirigenti che non mi paiono ancora spezzate. Per esempio la possibilità che l’Italia si ficchi in un ginepraio maggiore che l’Iraq o l’Afghanistan, -  in Siria o in Iran o altrove -  per non uscire “dal novero delle grandi potenze” mi pare tutt’altro che remota. (S.L.L.)

Erra chi sostiene che la storia non riproponga mai la stessa situazione. Un esempio? Il modo come l'Italia entrò in guerra nei due grandi conflitti mondiali.
Il 24 maggio 1915 - settant' anni fa, dunque - "l'esercito marciava per raggiunger la frontiera", guidato da un capo, il conte Luigi Cadorna, convinto di metter fine alla campagna in poche settimane. Della stessa opinione del generale erano i circoli politici, industriali, finanziari, giornalistici che si coagulavano nel cosiddetto fronte interventista. Da dove traessero questo convincimento - certamente sincero e in buona fede - pare oggi un mistero. C'era in tutti i partigiani della guerra la sensazione diffusa che se non si entrava subito, in quel momento, in azione, sarebbe stato troppo tardi: l'Italia avrebbe perso una storica occasione, quella di sedersi al tavolo dei vincitori. In caso contrario sarebbe uscita dal novero delle grandi potenze.
Il 10 giugno 1940 Mussolini, dittatore indisturbato, capo dell' esecutivo e delle forze armate, annunciò l'ingresso dell' Italia fascista nel conflitto, intimamente convinto - e con lui tutto lo staff del suo regime - di essere addirittura in ritardo all'appuntamento "dell'ora che batte sul quadrante della storia". Occorrevano alcune migliaia di morti, e alla svelta, per poter partecipare con Hitler alla creazione del nuovo ordine europeo.
Nell'un caso - 1915 - come nell' altro - 1940 - ci si sarebbe atteso un esercito attrezzato per un blitz che sapesse con la fulmineità travolgente della manovra sopperire al ritardo. Nulla di tutto questo accadde. Luigi Cadorna, che nelle sue direttive militari antecedenti al conflitto aveva farneticato di manovre sulle ali, irruzioni fulminee, scontri campali nelle pianure austro-ungariche, dopo quindici giorni si trovò arenato di fronte ai reticolati, ai nidi di mitragliatrici, ai tiri incrociati delle batterie. E davanti a quelle trincee avrebbe dato di testa sino alla tragedia di Caporetto. Cadorna dovette toccar con mano i ritardi, l'inefficienza della macchina militare italiana, priva di tradizioni, di mezzi adeguati, di capi, e in più dissestata dalla guerriglia libica, che ne aveva corroso la fibra. I governanti, che nelle "radiose giornate di maggio" avevano consentito che si bastonassero in piazza i neutralisti giolittiani, "traditori" e pessimisti, scoprirono anch'essi che i presupposti politici dell'ingresso in guerra, da loro ritenuti favorevoli, erano puro parto della fantasia. L'Austria-Ungheria non crollò sotto il nostro assalto; lo schieramento degli Imperi centrali mantenne intatti coesione e vigore. Anzi, proprio in coincidenza con la nostra partecipazione bellica, il fronte russo fu sfondato dagli austriaci, e gli alleati serbi non concorsero per nulla, come previsto, al successo delle operazioni italiane. Cominciò anche per l'Italia il triste, sanguinoso calvario della guerra di posizione, che avrebbe disseccato il fiume delle migliori energie del paese, minando le fragili fondamenta della democrazia parlamentare e gettando le basi per l'avventura fascista.
Analoga sorte toccò agli "otto milioni di baionette" dell'esercito mussoliniano, orgoglio e vanto del regime. Alla frontiera francese i nostri soldati, male armati ed equipaggiati, dovettero arrestarsi subito di fronte ai formidabili apprestamenti difensivi del nemico, presidiati da pochissime forze, per nulla intenzionate, pur nello sconquasso di una Francia già in ginocchio, a cedere un solo metro agli italiani maramaldi. Poche case di Mentone, qualche baita su tra i monti, furono l'unico "pegno" che Mussolini riuscì a strappare. Anche lui, come Cadorna (eppure entrambi ne erano i capi), dovette constatare come il suo esercito fosse "scassato", privo di armi adeguate e di capi geniali. Un esercito che ancora doveva smaltire le tossine delle campagne d'Africa e di Spagna. E similmente negli obiettivi politici Mussolini fallì ogni previsione. L'ingresso dell'Italia in guerra non produsse alcun effetto strategico. L'Inghilterra continuò impavida a combattere, senza alcun sintomo di cedimento. Quella che nel giugno 1940 sembrava una scontata vittoria di Hitler si trasformò in una disfatta, con la dilatazione del conflitto che portò in campo le sterminate armate di Stalin e la gigantesca economia americana.
Non può non colpire questa "continuità" italiana, pur nella diversità degli scenari e in due epoche così diverse tra loro. C' è un minimo comun denominatore che fa loro da trait d'union: la superficialità di giudizio, il dilettantismo, la pochezza delle nostre classi dirigenti nei loro versanti politici, militari, economici, culturali. Messa di fronte, nei momenti cruciali, ai cosiddetti "nodi storici", quell' Italia ha sempre rivelato la sua natura subalterna, "provinciale", di piccola potenza ubriaca di magniloquente retorica e di sterile volontarismo. Insomma, i classici contorni di un "imperialismo straccione". Il tutto pagato con fiumi di sangue e distruzione di enormi ricchezze. Sono elementi del nostro passato, recente e lontano, da non dimenticare, soprattutto durante le celebrazioni: quando, aggrappandosi all' eroismo di quanti si sacrificarono, c' è ancora chi tenta, oggi, di annacquare e nascondere gli errori e i crimini dei responsabili.


“la Repubblica”, 23 maggio 1985

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