Alla vigilia dei settant’anni da
quel 24 maggio in cui il Piave mormorava “la Repubblica” pubblicò tra gli altri
articoli sull’argomento questo di Gianni Rocca. L’autore, acuto giornalista,
stabilisce un confronto tra quell’ingresso in guerra dell’Italia e quel 10
giugno 1940 in cui Mussolini intimò al popolo italiano di “correre alle armi”,
giungendo per questa via a fissare alcune “continuità” della storia italiana e
delle sue classi dirigenti che non mi paiono ancora spezzate. Per esempio la
possibilità che l’Italia si ficchi in un ginepraio maggiore che l’Iraq o
l’Afghanistan, - in Siria o in Iran o
altrove - per non uscire “dal novero
delle grandi potenze” mi pare tutt’altro che remota. (S.L.L.)
Erra chi sostiene che la storia
non riproponga mai la stessa situazione. Un esempio? Il modo come l'Italia
entrò in guerra nei due grandi conflitti mondiali.
Il 24 maggio 1915 - settant' anni
fa, dunque - "l'esercito marciava per raggiunger la frontiera", guidato
da un capo, il conte Luigi Cadorna, convinto di metter fine alla campagna in
poche settimane. Della stessa opinione del generale erano i circoli politici,
industriali, finanziari, giornalistici che si coagulavano nel cosiddetto fronte
interventista. Da dove traessero questo convincimento - certamente sincero e in
buona fede - pare oggi un mistero. C'era in tutti i partigiani della guerra la
sensazione diffusa che se non si entrava subito, in quel momento, in azione,
sarebbe stato troppo tardi: l'Italia avrebbe perso una storica occasione,
quella di sedersi al tavolo dei vincitori. In caso contrario sarebbe uscita dal
novero delle grandi potenze.
Il 10 giugno 1940 Mussolini,
dittatore indisturbato, capo dell' esecutivo e delle forze armate, annunciò l'ingresso
dell' Italia fascista nel conflitto, intimamente convinto - e con lui tutto lo
staff del suo regime - di essere addirittura in ritardo all'appuntamento
"dell'ora che batte sul quadrante della storia". Occorrevano alcune
migliaia di morti, e alla svelta, per poter partecipare con Hitler alla
creazione del nuovo ordine europeo.
Nell'un caso - 1915 - come nell'
altro - 1940 - ci si sarebbe atteso un esercito attrezzato per un blitz che
sapesse con la fulmineità travolgente della manovra sopperire al ritardo. Nulla
di tutto questo accadde. Luigi Cadorna, che nelle sue direttive militari
antecedenti al conflitto aveva farneticato di manovre sulle ali, irruzioni
fulminee, scontri campali nelle pianure austro-ungariche, dopo quindici giorni
si trovò arenato di fronte ai reticolati, ai nidi di mitragliatrici, ai tiri
incrociati delle batterie. E davanti a quelle trincee avrebbe dato di testa
sino alla tragedia di Caporetto. Cadorna dovette toccar con mano i ritardi, l'inefficienza
della macchina militare italiana, priva di tradizioni, di mezzi adeguati, di
capi, e in più dissestata dalla guerriglia libica, che ne aveva corroso la
fibra. I governanti, che nelle "radiose giornate di maggio" avevano
consentito che si bastonassero in piazza i neutralisti giolittiani,
"traditori" e pessimisti, scoprirono anch'essi che i presupposti
politici dell'ingresso in guerra, da loro ritenuti favorevoli, erano puro parto
della fantasia. L'Austria-Ungheria non crollò sotto il nostro assalto; lo
schieramento degli Imperi centrali mantenne intatti coesione e vigore. Anzi,
proprio in coincidenza con la nostra partecipazione bellica, il fronte russo fu
sfondato dagli austriaci, e gli alleati serbi non concorsero per nulla, come
previsto, al successo delle operazioni italiane. Cominciò anche per l'Italia il
triste, sanguinoso calvario della guerra di posizione, che avrebbe disseccato
il fiume delle migliori energie del paese, minando le fragili fondamenta della
democrazia parlamentare e gettando le basi per l'avventura fascista.
Analoga sorte toccò agli "otto
milioni di baionette" dell'esercito mussoliniano, orgoglio e vanto del
regime. Alla frontiera francese i nostri soldati, male armati ed equipaggiati,
dovettero arrestarsi subito di fronte ai formidabili apprestamenti difensivi del
nemico, presidiati da pochissime forze, per nulla intenzionate, pur nello
sconquasso di una Francia già in ginocchio, a cedere un solo metro agli
italiani maramaldi. Poche case di Mentone, qualche baita su tra i monti, furono
l'unico "pegno" che Mussolini riuscì a strappare. Anche lui, come
Cadorna (eppure entrambi ne erano i capi), dovette constatare come il suo
esercito fosse "scassato", privo di armi adeguate e di capi geniali.
Un esercito che ancora doveva smaltire le tossine delle campagne d'Africa e di
Spagna. E similmente negli obiettivi politici Mussolini fallì ogni previsione.
L'ingresso dell'Italia in guerra non produsse alcun effetto strategico. L'Inghilterra
continuò impavida a combattere, senza alcun sintomo di cedimento. Quella che
nel giugno 1940 sembrava una scontata vittoria di Hitler si trasformò in una
disfatta, con la dilatazione del conflitto che portò in campo le sterminate
armate di Stalin e la gigantesca economia americana.
Non può non colpire questa
"continuità" italiana, pur nella diversità degli scenari e in due
epoche così diverse tra loro. C' è un minimo comun denominatore che fa loro da trait d'union: la superficialità di
giudizio, il dilettantismo, la pochezza delle nostre classi dirigenti nei loro
versanti politici, militari, economici, culturali. Messa di fronte, nei momenti
cruciali, ai cosiddetti "nodi storici", quell' Italia ha sempre
rivelato la sua natura subalterna, "provinciale", di piccola potenza
ubriaca di magniloquente retorica e di sterile volontarismo. Insomma, i
classici contorni di un "imperialismo straccione". Il tutto pagato
con fiumi di sangue e distruzione di enormi ricchezze. Sono elementi del nostro
passato, recente e lontano, da non dimenticare, soprattutto durante le
celebrazioni: quando, aggrappandosi all' eroismo di quanti si sacrificarono, c'
è ancora chi tenta, oggi, di annacquare e nascondere gli errori e i crimini dei
responsabili.
“la Repubblica”, 23 maggio 1985
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