Il ventitreesimo numero della
rivista “Zapruder – Storie in movimento”, di settembre-dicembre 2010, aveva
come titolo Brava gente. Memoria e
rappresentazioni del colonialismo italiano. C’era una allusione, evidente
nel mondo storiografico, a un libro importante, Italiani brava gente?, di Angelo Del Boca, sintesi di molti studi
particolare, narrazione documentata e argomentata dei crimini del colonialismo
italiano, denuncia delle rimozioni, confutazione delle interessate “narrazioni”
di un imperialismo “buono”, oltre che straccione.
Tra gli articoli del numero ve n’è
uno di Chiara Ottaviano, Riprese coloniali. I documentari Luce e la
«Settimana Incom», che vorrebbe contribuire a capire come quelle narrazioni
siano state costruite, per poi essere tramandate e consolidate da una generazione
all’altra, anche attraverso cinegiornali e documentari proiettati al cinema sia
durante il fascismo che nell’immediato dopoguerra.
Riprendo qui l’introduzione che
mi pare ottimamente sintetizzi il carattere falso e autoassolutorio che
caratterizza la memoria italiana del passato coloniale, una memoria al
contrario di tante altre “condivisa” e negativamente efficace. (S.L.L.)
Quando nel giugno 2009 Gheddafi
scese dalla scaletta dell’aereo che lo aveva portato a Ciampino per la prima
visita ufficiale in Italia, dopo gli accordi dell’agosto e poi dell’ottobre
2008, l’attenzione di fotografi e teleoperatori fu attratta da una fotografia
vistosamente appuntata sull’improbabile divisa del leader libico. In
quell’occasione la stragrande maggioranza degli italiani sentì per la prima
volta pronunziare il nome dell’eroe libico della guerriglia anti-italiana Omar
al Mukhtar.
Nel corso della visita, poi,
Silvio Berlusconi, a nome del popolo italiano, ebbe modo di ripetere le scuse
per l’occupazione coloniale della Cirenaica e della Tripolitania, riconoscendo
le «ferite profonde inferte» al popolo libico. Si spiegò allora che i termini
dell’accordo economico (200 milioni di dollari all’anno per i successivi 25
anni sotto forma di investimenti in progetti infrastrutturali in Libia) erano motivati
dal desiderio di porre fine a 40 anni di malintesi: «un riconoscimento completo
e morale dei danni inflitti alla Libia da parte dell’Italia durante il periodo
coloniale». Si è, dunque, trattato di una, sia pur tardiva, ufficiale
ammissione da parte dell’Italia dei gravi torti inflitti alle popolazioni
africane delle nostre ex colonie, e in particolare di quelle del territorio
dell’attuale Libia.
Quale seguito hanno avuto quegli
atti ufficiali nella più vasta opinione pubblica? Si è assistito, forse,
all’inizio di un qualche processo capace di fare sperare nella crescita di una
maggiore consapevolezza del nostro passato, da cui un nuovo senso comune
storiografico più aderente alla verità storica di quanto non lo fosse il
precedente, dominato dall’idea del “colonialismo buono” ad opera degli italiani
“brava gente”?
Niente affatto, almeno per il
momento. Infatti, leggendo sia molte cronache giornalistiche sia i numerosi
commenti dei lettori consultabili sui siti internet dei principali quotidiani,
quelle “scuse” sono state di norma interpretate come l’ennesima mossa a
sorpresa dello scaltro premier italiano alla ricerca di vantaggi (anche
personali) e, in molti casi, hanno suscitato indignazione e sentimenti di
incredulità. Pochi i commenti dei lettori che, in risposta all’indignazione altrui,
hanno ricordato le malefatte italiane ricorrendo all’autorità degli storici e
facendo soprattutto riferimento all’opera di Angelo Del Boca.
In altre parole, quelle scuse
sono state considerate dalla maggioranza degli intervenuti come discutibili
affermazioni di comodo e non, piuttosto, come scomode verità con cui fare i
conti. Neanche il carisma del leader Berlusconi sul suo più fedele elettorato
(tale si presume, per esempio, quello costituito dai lettori de «il Giornale»)
sembra essere riuscito a scalfire le precedenti solide certezze secondo cui gli
italiani in Africa sono stati protagonisti di una sorta di “colonialismo
buono”, implicando tale aggettivo non tanto l’idea che gli italiani abbiano
esercitato una qualche virtù positiva quanto piuttosto l’opinione che non
abbiano saputo cogliere, al pari di altre potenze coloniali, le giuste
opportunità per arricchire il paese Italia sfruttando adeguatamente le risorse
dei paesi conquistati. Gli italiani, “buoni” in questo caso nell’accezione di
fessi, avrebbero in quelle lontane terre costruito strade e acquedotti, dissodato
e coltivato terre, costruito piazze e case, portando così la civiltà, senza
ricevere in cambio né vantaggi durevoli né gratitudine da parte delle popolazioni
locali.
A titolo esemplificativo, riporto
il commento di un lettore pubblicato sul sito de «il Giornale» dopo la firma
dell’accordo a Bengasi il 30 agosto 2008.
Pagliaroli Sosio, il 31 agosto 2008 alle ore 9:08 scrive: Sono nato
nell’immediato dopoguerra, ma da quello che ho appreso dalla scuola, dalla
storia, dalle mie letture, da mio padre e dai vecchi del paese; pare che gli
italiani, in quella colonizzazione hanno fatto del bene e basta. Poi quelli che
erano rimasti e si erano installati lì a continuare a far progredire i beduini;
Gheddafi, dopo di averli depredati di tutti i loro averi, li ha rispediti in
Italia sottoforma di profughi. Ora dobbiamo noi risarcire loro?.- Mi sa tanto che
il senso degli affari del presidente questa volta abbia proprio toppato.
Il sig. Sosio indica una certa
varietà di fonti, tutte convergenti, all’origine delle sue certezze: la scuola,
i libri letti, i racconti di famiglia e quelli ascoltati da altri anziani nel
paese. Dal suo punto di vista, sono state perfettamente coincidenti sia le
versioni dei racconti tramandati oralmente, in ambito familiare e locale, sia
quella della cosiddetta storia ufficiale, appresa sui banchi della scuola e
attraverso qualche lettura. Ritengo sia del tutto secondario fare rilevare che
forse quelle letture sono state rare o solo millantate (visti i problemi di
grammatica, punteggiatura e sintassi mostrati nella scrittura). Ciò che è
significativo è la presunta conoscenza di quello specifico periodo della storia
italiana, data per scontata.
La lettera del sig. Sosio, che
ben esemplifica il pensiero della stragrande maggioranza degli intervenuti sul
sito del quotidiano (e pensiamo anche degli italiani), consente di mettere a
fuoco un punto tanto dolente quanto rilevante: la storia delle colonie
italiane, con poche voci dissonanti a partire solo dalla fine degli anni
sessanta, è stata una delle rarissime pagine della nostra storia non
controverse, esempio di una “memoria condivisa” su cui si sono addensate
versioni concordi e silenzi diversamente consapevoli. Gli italiani, così
profondamente divisi fra ex repubblichini e antifascisti, fra cattolici e laici,
fra destra e sinistra, fra monarchici e repubblicani, rispetto alla storia del nostro passato coloniale sono
stati straordinariamente concordi nel condividere una versione e un’interpretazione
dei fatti tanto indiscussa quanto falsa...
da http://www.storieinmovimento.org/index.php
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