7.8.13

Le tre enigmistiche (di Stefano Bartezzaghi)


Stefano Bertezzaghi
Di enigmistiche ne esistono perlomeno tre. Una (suo emblema il cruciverba) è reperibile in edicola, vende bene, fa da sottofondo alla vita pacatamente intellettuale di parecchi individui: è la versione tecnologica degli indovinelli della nonna. Siamo in molti a esserne avvezzi.
La seconda enigmistica è una variante sofisticata e sofistica della prima. Poche centinaia di adepti arcigni tra cui circolano, semiclandestine, tre o quattro riviste iniziatiche, abitate da improbi quesiti. Si chiama enigmistica classica, è una landa marginale.
Poi c'è la terza enigmistica. Come la Lettera Involata di Edgar Allan Poe, è sotto gli occhi di chiunque, ma non ce ne si accorge. È l'enigmistica dei giochi di parole, dei bisticci, dei motti: un'atletica del significato e del significante, senza regole precotte, un rimario strabico di anagrammi, sincopi, letture retroverse. Frequente ospite del discorso sociale e del letterario, sempre sulla punta della lingua dei Grandi, non è facile trovarne stabili confini. È infatti attività cospicua ma disordinata: si va dai rebus di Leonardo da Vinci alla retorica della pubblicità, passando per le intemperanze linguistiche di un Queneau.
Non sempre il fine è ludico: Proust prepara con strategie di estenuante sottigliezza la drammatica «equivocatio» tra i nomi di Gilberte e Albertine, per farla poi esplodere nel penultimo volume. Carlo Emilio Gadda gioca a nascondino con il suo alter ego enagrammatico, Ali Oco de Madrigal, e la maschera enigmistica non è tanto casuale.
Matti un poco più rilassati sono gli autori della «letteratura potenziale», Perec, Queneau, Calvino tra gli altri: inventori di matrici narratologiche, capaci di generare tutte le situazioni poliziesche immaginabili; costruttori di macchine combinatorie come quella che può produrre centomila miliardi di sonetti (uno più, uno meno); scrittori di novelle come quella in cui compare un'unica vocale, la E.
Sono gli eredi inconsci di quel Ludovico Leporeo che ha infestato il Seicento con sonetti di quattro o cinque rime per verso. Cose così: «Cupido infido io grido e strido avante / Beltà che ha crudeltà pietà non sente / Di chi servì, sveni, seguì fuggente / Rea Medea che pare l'Idea beante».
Dove infileremo allora il carme numerico che Arrigo Boito aveva dedicato a Eleonora Duse? Ogni distico terminava con la citazione, talora mascherata, di un numero: «Ove dan morte turbinando i venti... che sembri dire: intorno a me v'ad-uno... Stagnar dal core e piangerem dir-otto». Nell'ultimo verso, ecco la somma di tutti questi numeri-rima: «Esaudì i tre Romei, se buona se gentil se-santa-sei».
E lo smaccato anagramma leopardiano su «Silvia... salivi»? Comunque la si veda, è questo il background delle nostre rubriche di anagrammi (come funghi, di questi tempi), dei furori ludici sparsi. E la scontata conclusione è che il gioco sia una forma della manipolazione linguistica tra le altre: che volano più alte, che volano più basse.
Inquietudine linguistica, «agudeza» neobarocca, idiozia: la terza enigmistica non seleziona i suoi ospiti, e ci si è dentro come niente.

L’Europeo, 9 maggio 1987

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