Un vecchio sugoso articolo,
sintesi di studi già compiuti e premessa di ulteriori ricerche confluite in Italiani brava gente? (Neri Pozza, 2005)
I paesi europei che hanno
partecipato alla spartizione dell'Africa, si sono macchiati, tutti,
indistintamente, dei peggiori crimini. E' un dato suffragato da episodi sui
quali esiste, nella memoria e negli archivi, una documentazione imponente.
Cominciarono i boeri, due secoli fa, massacrando le popolazioni indigene del
Sudafrica, in modo particolare gli Ottentotti, gli Zulù e gli Ama Xosa. Gli
inglesi non furono da meno, nel Sudan, quando si trattò di annientare la
resistenza mahdista. Negli stessi anni i francesi demolivano, l'uno dopo
l'altro, i regni Bambara, Mossi, Fulbe, Mande, Yoruba, dalla Mauritania al Ciad,
dal Senegal al Gabon. Poi intervennero i tedeschi, i quali fecero scempio degli
Herero e dei Nama, nell'attuale Namibia, mentre i belgi colonizzavano il Congo
con metodi spietati. Le stragi di popolazioni africane continuarono anche dopo
la seconda guerra mondiale, quando il periodo coloniale sembrava ormai
concluso. Come dimenticare le repressioni del maggio 1945, nella regione di
Costantina, a causa delle quali persero la vita dai 20 ai 50mila algerini? E la
caccia al malgascio, dopo l'insurrezione del 1947, che fece, secondo le stime
dello stesso Alto Commissario in Madagascar, Pierre de Chevigné, «più di
centomila morti»? E che dire della campagna contro i Mau Mau del Kenya, fra il
1952 e il 1956, con un bilancio di 10.527 uccisi e 77mila incarcerati? Ma un
autentico genocidio di un popolo si sarebbe verificato in Algeria, fra il 1954
e il 1961, quando i francesi, nel folle, antistorico tentativo di conservare
alla Francia la sua più antica colonia, scatenavano una guerra che avrebbe
causato un milione di morti.
Tanto nel periodo della
liberaldemocrazia che durante i vent'anni del regime fascista, il comportamento
dell'Italia nelle sue colonie di dominio diretto non fu dissimile da quello
delle altre potenze coloniali. Impiegò i metodi più brutali sia nelle campagne
di conquista che nel periodo successivo, stroncando ogni tentativo di
ribellione. Con l'avvento del fascismo, poi, le condizioni dei sudditi
coloniali si fecero ancora più precarie, soprattutto perché fu messa a tacere
in Italia l'opposizione, tanto in Parlamento che negli organi di informazione.
Grazie infine alle più capillari pratiche censorie, furono tenuti nascosti agli
italiani episodi di inaudita gravità, come, ad esempio, la deportazione di
intere popolazioni del Gebel cirenaico, la creazione nella Sirtica di quindici
letali campi di concentramento, l'uso dei gas durante il conflitto
italo-etiopico, le tremende rappresaglie in Etiopia dopo il fallito attentato
al viceré Graziani.
Quando Mussolini arrivò al
potere, la riconquista della Libia era appena iniziata, mentre sulle regioni
centrali e settentrionali della Somalia il dominio italiano era soltanto
virtuale. A Mussolini, più che ai suoi generali, va dunque la responsabilità di
aver adottato i metodi più crudeli per riconquistare le colonie pre-fasciste e
per dare, con l'Etiopia, un impero agli italiani.
a) L'impiego degli aggressivi
chimici.
Usati sporadicamente in Libia,
nel 1928, contro la tribù dei Mogàrba er Raedàt, e nel 1930, contro l'oasi di
Taizerbo, i gas vennero invece impiegati in maniera massiccia e sistematica
durante il conflitto italo-etiopico del 1935-36 e nelle successive operazioni
di «grande polizia coloniale» e di controguerriglia. L'Italia fascista aveva
firmato a Ginevra, il 17 giugno 1925, con altri venticinque paesi, un trattato
internazionale che proibiva l'utilizzazione delle armi chimiche e
batteriologiche, ma, come abbiamo visto, neppure tre anni dopo violava il
solenne impegno usando fosgene ed iprite contro le popolazioni libiche. In
Etiopia le violazioni furono così numerose e palesi da sollevare l'indignazione
dell'opinione pubblica mondiale. Le prime bombe all'iprite furono lanciate sul
finire del 1935 per bloccare l'avanzata dell'armata di ras Immirù Haile
Sellase, che puntava decisamente all'Eritrea, e quella di ras Destà Damtèu, che
aveva come obiettivo Dolo, in Somalia. In tutto, durante il conflitto
italo-etiopico del 1935-36, furono sganciate su obiettivi militari e civili
1.597 bombe a gas, in prevalenza del tipo C.500-T, per un totale di 317 tonnellate.
Altre 524 bombe a gas furono lanciate, tra il 1936 e il 1939, durante le
operazioni contro i patrioti etiopici. Se si aggiunge, infine, che durante la
battaglia dell'Endertà furono sparati dalle batterie di cannoni di Badoglio
1.367 proiettili caricati ad arsine, non si è lontani dal ritenere che in
Etiopia siano stati impiegati non meno di 500 tonnellate di aggressivi chimici.
b) I campi di sterminio.
Con il fascismo le vessazioni nei
confronti degli indigeni raggiunsero livelli mai prima segnalati.
Dall'esproprio dei terreni, dalla confisca dei beni dei «ribelli», dal diffuso
esercizio del lavoro forzato, si passò alla deportazione di intere popolazioni
e alla loro segregazione in campi di concentramento, che soltanto la cinica
prosa dei documenti ufficiali aveva il coraggio di definire «accampamenti». Il
più noto e drammatico di questi trasferimenti coatti avvenne in Cirenaica nel
1930, dopo che Graziani aveva fallito il tentativo di domare la ribellione
capeggiata da Omar el-Mukhtàr. Su ordine del governatore generale Badoglio, il
quale era convinto che la rivolta si sarebbe potuta infrangere soltanto
spezzando i legami tra gli insorti e le popolazioni del Gebel cirenaico,
Graziani predisponeva il trasferimento di 100mila civili dalla Marmarica e dal
Gebel el-Ackdar ai campi di concentramento che aveva fatto costruire nella
Sirtica, una delle regioni più inospitali dall'Africa del Nord. Quando i lager
vennero definitivamente sciolti nel 1933, i sopravvissuti erano appena 60mila.
Gli altri 40mila erano morti durante le marce di trasferimento, per le pessime
condizioni sanitarie dei campi (per i 33mila reclusi nei lager di Soluch e di
Sidi Ahmed el-Magrun c'era un solo medico), per il vitto insufficiente e spesso
avariato, per le inevitabili epidemie di tifo petecchiale, dissenteria
bacillare, elmintiasi, per le violenze compiute dai guardiani e per le
esecuzioni sommarie per chi tentava la fuga.
I campi di sterminio nella
Sirtica non furono i soli. Memore della loro macabra efficacia, Graziani ne
istituì uno anche in Somalia, a Danane, a sud di Mogadiscio. Secondo Micael
Tesemma, un alto funzionario del ministero degli Esteri etiopico, che fu
recluso a Danane per tre anni e mezzo, dei 6.500 etiopici e somali che si
avvicendarono nel campo, tra il 1936 e il 1941, 3.171 vi persero la vita.
Un secondo campo fu istituito
nell'isola di Nocra, in Eritrea. Qui le condizioni di vita erano anche più
intollerabili, perché i detenuti erano costretti al lavoro forzato nelle cave
di pietra, con temperature che a volte raggiungevano i 50 gradi. L'alto tasso
di mortalità a Nocra era causato principalmente dalla malaria e dalla
dissenteria, poi dal cattivo nutrimento e dalle insolazioni.
c) Le stragi.
L'intera storia delle conquiste
coloniali italiane è punteggiata da stragi e da esecuzioni sommarie. Ma vi sono
episodi che emergono per la loro spiccata gravità. Nella notte del 26 ottobre
1926, ad esempio, avendo saputo che lo scek Ali Mohamed Nur, un capo religioso
ostile all'Italia, era sfuggito all'arresto e si era barricato con i suoi
seguaci nella moschea di El Hagi, a Merca, una cinquantina di coloni italiani
di Genale, ex squadristi, armati di moschetti e di fucili da caccia, puntò su
Merca, circondò la moschea e trucidò tutti i suoi occupanti, un centinaio di
somali. Il massacro sarebbe stato anche più ingente se, al mattino, a
sostituire gli squadristi, che intendevano liquidare tutta la popolazione
indigena della zona, non fossero intervenuti i reparti dell'esercito.
Dalla Somalia passiamo alla
Libia. Nel febbraio del 1930, alla fine delle operazioni per la riconquista del
Fezzan, Graziani spinse un migliaio di mugiahidin, con le loro famiglie, verso
il confine con l'Algeria e poiché non fece in tempo ad intrappolarli, per due
giorni consecutivi lanciò tutti gli aerei a sua disposizione sulle mehalla in
fuga. Fu una carneficina, come testimonia lo stesso inviato de Il Regime
Fascista, Sandro Sandri, il quale assistette ai bombardamenti e mitragliamenti
del «gregge umano composti, oltreché degli armati, da una moltitudine di donne
e bambini».
Ma è in Etiopia, nel cristiano e
millenario impero del Prete Gianni, che furono consumati i più orrendi eccidi,
alcuni dei quali non ancora studiati a fondo per cui il numero delle vittime
potrebbe ancora aumentare. Cominciamo con le stragi compiute ad Addis Abeba
dopo l'attentato del 19 febbraio 1937 al viceré Graziani. Per tre giorni, su
ordine del segretario federale della capitale, Guido Cortese, fu impartita agli
etiopici, che erano assolutamente estranei all'attentato, una «lezione
indimenticabile». Alla selvaggia repressione presero soprattutto parte camicie
nere, civili italiani ed ascari libici e fu condotta, come riferisce un
testimone degno di fede, il giornalista Ciro Poggiali, «fulmineamente, coi
sistemi del più autentico squadrismo fascista». Quando, il 21 febbraio,
Graziani diramò, dall'ospedale in cui era stato ricoverato per le ferite
subite, l'ordine di cessare la rappresaglia, la capitale era disseminata di
cadaveri. Mille morti, secondo Graziani; da 1.400 a 6.000, secondo le stime dei
testimoni stranieri; 30mila, a sentire gli etiopici.
Cessata la strage in Addis Abeba,
la repressione continuò in tutte le altre regioni dell'impero. Si dava
soprattutto la caccia agli indovini e ai cantastorie, ritenuti responsabili di
aver annunciato nelle città e nei villaggi la fine prossima del dominio
italiano in Etiopia. Secondo una relazione del colonnello Azolino Hazon, la
sola arma dei carabinieri passò per le armi, in meno di quattro mesi, 2.509
indigeni. Alle operazioni repressive partecipò anche l'esercito. Al generale
Pietro Maletti venne infatti affidato l'incarico di punire i religiosi della
città conventuale di Debrà Libanòs, ingiustamente sospettati di aver favorito
l'attentato a Graziani ospitando i due esecutori materiali, gli eritrei Abraham
Debotch e Mogus Asghedom. Tra il 18 e il 27 maggio 1937 Maletti portò a termine
la sua missione fucilando 449 monaci e diaconi.
Queste cifre le abbiamo desunte
dai dispacci che Graziani inviava quotidianamente a Mussolini, e fino a qualche
tempo fa le ritenevamo attendibili poiché Graziani ha sempre avuto la tendenza
a non celebrare, e soprattutto a non ridurre, le cifre della sua macabra
contabilità. Il viceré, infatti, commentando la strage di Debrà Libanòs non
aveva mostrato alcuna reticenza nel sottolineare l'estremo rigore della
punizione: «E' titolo di giusto orgoglio per me aver avuto la forza d'animo di
applicare un provvedimento che fece tremare le viscere di tutto il clero,
dall'Abuna all'ultimo prete o monaco».
Ma dovevo sbagliarmi sulle cifre
della strage. Due miei collaboratori, Ian L. Campbell, dell'Università di
Nairobi, e Degife Gabre-Tsadik, dell'Università di Addis Abeba, compivano fra
il 1991 e il 1994 alcuni accurati sopralluoghi nelle località in cui Maletti
decimò il clero copto e giunsero alla conclusione, dopo aver intervistato
alcuni superstiti della strage e alcuni testimoni delle operazioni di Maletti,
che le cifre riferite da Graziani erano del tutto inattendibili. In realtà, le
mitragliatrici di Maletti hanno abbattuto a Debrà Libanòs, Laga Wolde e a
Guassa, non 449 tra preti, monaci, diaconi e debteras, ma un numero di
religiosi che si aggira tra i 1.423 e i 2.033. Data la serietà dei due
ricercatori e il numero delle testimonianze raccolte, nel 1997 pubblicavo il
loro lungo rapporto sul numero 21 di «Studi Piacentini».
Questa non è che una sintesi
molto lacunosa dei torti che l'Italia fascista ha fatto alle popolazioni
africane da essa amministrate. Dovremmo infatti anche parlare delle leggi razziali,
che confinavano gli indigeni nei loro ghetti, anticipando di vent'anni i rigori
e gli abusi dell'apartheid sudafricana. Dovremmo ricordare i limiti imposti
all'istruzione, tanto che in settant'anni di presenza italiana in Africa nessun
indigeno ebbe la facoltà e i mezzi per ottenere un diploma o una laurea.
Dovremmo infine ricordare che ai sudditi africani erano riservati soltanto
ruoli subalterni, i più modesti ed umilianti. Un fatto del genere non accadeva
nelle colonie africane della Francia e della Gran Bretagna.
Questi crimini furono
accuratamente nascosti agli italiani con tutti gli strumenti di cui può
disporre una dittatura. E se qualche verità filtrava all'estero, ad esempio sui
gas impiegati in Etiopia, il regime reagiva rabbiosamente sostenendo che un
popolo che stava portando la civiltà in Africa non poteva macchiarsi di tali
infamie.
Molti testimoni italiani di
stragi o dell'impiego delle armi chimiche si decideranno a svelare i loro
segreti soltanto trenta, quaranta, cinquanta anni dopo gli avvenimenti e sempre
con qualche reticenza. Altri, invece, e sono i più numerosi, non hanno mai
testimoniato sui crimini, perché non li ritenevano tali, ma li consideravano
normali pratiche per tenere a freno popolazioni che giudicavano barbare. Molti,
fra costoro, si sono fatti fotografare in posa dinanzi alle forche o reggendo
per i capelli teste mozze di patrioti etiopici.
Questa macabra, allucinante
documentazione fotografica è visibile negli Archivi storici di Addis Abeba e
proviene dagli uffici degli organi giudiziari italiani scampati alle
distruzioni della guerra, o dai portafogli degli italiani finiti prigionieri
degli etiopici alla caduta dell'impero.
Il mito degli «italiani brava
gente» cominciò ad affermarsi quando ancora l'Italia era impegnata in Africa a
difendere i suoi territori. Se si sfogliano le riviste coloniali dell'epoca si
nota l'insistenza con la quale il regime fascista cercava di accreditare la
tesi dell'italiano impareggiabile costruttore di strade, ospedali, scuole;
dell'italiano che in colonia è pronto a deporre il fucile per impugnare la
vanga; dell'italiano gran lavoratore, generoso al punto da porre la sua
esperienza al servizio degli indigeni. Si tentava, insomma, di costruire il
mito di un italiano diverso dagli altri colonizzatori, più intraprendente e
dinamico, ma anche più buono, più prodigo, più tollerante. Insomma il prodotto
esemplare di una civiltà millenaria, illuminato dalla fede cattolica,
fortificato dalla dottrina fascista. Questo mito sopravviverà alla sconfitta
nella seconda guerra mondiale e impregnerà tutti i documenti che i primi
governi della Repubblica presenteranno alle Nazioni unite o ad altre assise
internazionali nel tentativo, fallito, di salvare, se non tutte, almeno le
colonie prefasciste.
Non soltanto resisteva il mito
degli «italiani brava gente», ma si impediva con ogni mezzo che si svolgesse
nel paese un sereno e costruttivo dibattito sul colonialismo. Gli effetti del
mancato dibattito sono visibili, come sono palesi i danni arrecati. Il primo dato
negativo è la rimozione quasi totale, nella memoria e nella cultura storica
dell'Italia, del fenomeno dell'imperialismo e degli arbitri, soprusi, crimini,
genocidi ad esso connessi. A 117 anni dallo sbarco a Massaua del colonnello
Tancredi Saletta, a 91 dallo sbarco del generale Caneva a Tripoli, a 67
dall'aggressione fascista all'Etiopia, l'Italia repubblicana non ha ancora
saputo sbarazzarsi dei miti, delle leggende, delle contraffazioni che si sono
formate nel periodo coloniale, mentre una minoranza non insignificante di
reduci e di nostalgici li coltiva amorevolmente e li difende con iattanza.
Non soltanto è stato contrastato
ogni tentativo di aprire un dibattito a livello nazionale sul colonialismo, che
coinvolgesse storici, forze politiche ed opinione pubblica, ma si è anche
tentato, da parte di alcune istituzioni dello Stato, di esercitare il monopolio
su alcuni archivi per impedire che affiorasse la verità, mentre una
storiografia di segno moderato o revanscista favoriva palesemente la rimozione
delle colpe coloniali.
A quando i processi postumi ai
Badoglio, ai Graziani, ai De Bono, ai Lessona, ai Cortese, ai Maletti e a tutti
gli altri responsabili dei genocidi africani rimasti impuniti? A quando la
verità nei libri di testo scolastici, che ignorano persino l'argomento? A
quando la proiezione sulla Tv di Stato dell'inchiesta televisiva «Fascist Legacy» di Ken Kirby e Michael
Palumbo sui crimini di guerra italiani in Africa e nei Balcani? Come è noto, la
Rai-Tv acquistò questo filmato dalla Bbc molti anni fa ma non lo ha mai
trasmesso. Perché? Per quali veti? Per quale ipocrita riserbo? Per quale motivo
è ancora proibito proiettare nelle sale Il
Leone del deserto, il film di Akkad che narra l'epopea tragica di Omar
el-Mukhtàr, impiccato da Graziani nel lager di Soluch?
il manifesto, 1 novembre 2002
Nessun commento:
Posta un commento