Del romanticismo tedesco, tra
fine Settecento e primi dell' Ottocento, Friedrich Schlegel fu teorico geniale,
anche se discontinuo. In una pagina famosa della rivista “Athenaum”, da lui
diretta tra il 1798 e il 1800, egli eleva un inno a quel fantasma ancora poco
delineato ma affascinante che è la poesia romantica. Una "poesia
universale progressiva" che dovrebbe unire tutti i generi poetici, fondere
vita e realtà, canto estatico e ironia, soggetto contemplante e cosa
rappresentata, antico e moderno, culture e arti di ogni età e paese. Sogni, in
buona parte, che nessuna poesia poteva realizzare appieno. D'altro canto però,
intendendolo in altro modo, questo proclama si può adattare anche a forme di
poesia già realizzate: a Omero e all'Antico Testamento, a Dante e a
Shakespeare. I romantici se ne accorsero così bene che, oltre a produrre nuove
opere creative, indagarono con occhi diversi tutta la poesia del passato o di
nazioni fin lì neglette, e non solo con lo slancio del critico-rapsodo ma anche
col rigore del critico-filologo. Tra le caratteristiche del romanticismo
prospettate dallo stesso Friedrich Schlegel c'è il connubio tra arte e vita,
proclamato con provocatoria consapevolezza. Donde l'influsso che, sugli studi e
le creazioni dei romantici, ebbero le loro donne: non soltanto ninfe egerie
come in passato, ma compagne di ricerca, colleghe di lotta e di trasgressione,
modelli di personaggi letterari dalle doti programmatiche. Per Friedrich
Schlegel fu l'intelligente e audace Dorothea, figlia del filosofo ebreo Moses
Mendelssohn (amico e ispiratore di Lessing), moglie del banchiere Simon Veit,
dal quale poi divorziò. Dorothea era diventata la sua amante, e fu un rapporto
così intenso che Schlegel la prese a modello per un romanzo, Lucinde (1799), in cui si proclamava la
libertà dei sensi (rivendicazione ancora settecentesca) e in più la fusione (il
che è ben romantico) di spirito e carne, di sensualità e misticismo. Dopo Jena,
i due amanti andarono a vivere a Parigi, e lì il loro rapporto cercò convalide
di natura religiosa e sociale. Dorothea vi si fece protestante; nel 1804 i due
si sposarono; nel 1808 si convertirono insieme al cattolicesimo.
Ma tra loro non c'era stato solo
il connubio di eros e pietas, ma anche quello di eros e filologia. In quello stesso 1804
che vede il loro matrimonio, esce infatti uno dei tanti frutti della loro
comune frequentazione della Bibliothèque Nationale, in cerca di antichi tesori:
La storia del Mago Merlino, ora tradotta
in italiano per l'editrice Studio Tesi da Silvia Alfonsi, con doppia
introduzione della stessa Alfonsi e di Michael Miller (pagg. 280, lire 25.000).
Non tenterò nemmeno di
districarmi dal fascinoso ginepraio dei miti, delle leggende, delle variazioni
in versi e in prosa di quella matière de
Bretaigne che si coagula intorno al ciclo di re Artù e della sua Tavola
Rotonda, ciclo in cui il Mago Merlino brilla come un caldo topazio. E' una
storia che comincia di buon mattino, con una Historia Britonum del IX secolo e la Historia Regum Britanniae (circa 1130) di Geoffrey of Monmouth, e
che in particolare, per ciò che riguarda l' adattamento in prosa tedesca dei
coniugi Schlegel, si concreta nel perduto poema Merlin di Robert de Boron, risalente più o meno al 1220 e di cui
rimase solo una versione in prosa. Ma la "matière" è assai più antica: si perde nelle brume celtiche
della preistoria pagana, e quanto al corso successivo, arriva fino alle
rielaborazioni ottocentesche di Tennyson e di Wagner, influenza la favolosità
polemica di Tolkien, permea le attuali proposte cinematografiche a base di
Camelot, di Excalibur, di Spade nella roccia, buone per un pubblico tra l'
infantile e il para-western.
Ma Dorothea (poiché fu lei,
soprattutto, a lavorarci sopra) e Friedrich, che poco galantemente risultò il
solo responsabile della duplice fatica, misero insieme un libro che -
trascurato fino a pochi anni fa dagli studiosi - non esito a definire uno dei
più belli di tutto il romanticismo. Anche a rischio di far torto a Robert de
Boron, che ne è, per la massima parte, il vero autore. Ciò che mi fa definir
romantico questo Merlino è la perfetta fusione di alto volo fantastico e di
palpabile verità umana. Prendiamo l' inizio. I diavoli, invidiosi di Cristo che
- figlio di una vergine - "infrange le porte dell'inferno", meditano
di fabbricare anch'essi un bambino che, figlio di una vergine e di un demonio,
procuri invece all' inferno strepitose vittorie. Perciò Satana distrugge un'
intera famiglia, poi prende di mira le tre figlie superstiti: ne fa fuori due,
nella vita e nel buon nome, poi si concentra sull'ultima, una santa ben
consigliata da un eremita, e riesce a ingravidarla quand'essa non è cosciente.
Il frutto di quello stupro sarà Merlino. Ma siccome è solo la libera volontà
che costituisce peccato, Merlino sarà bensì figlio del demonio, ma nello
spirito virtuoso e invitto di sua madre: non un paladino dell'inferno, ma un
mago e profeta al servizio dell' amore, della giustizia, della lealtà. Ebbene,
tutti questi trapassi, che potrebbero perdersi nella casistica teologica o
banalizzarsi a puro romanzo sensazionale, ci scorrono invece davanti col calore
e il colore della vita, hanno profondità drammatiche degne di Shakespeare, e
insieme sono narrate con quella vegetale grazia un po' liberty che sembra
caratteristica dei celti. Così i capitoli, diciamo storico-politici, intermedi.
Certo, una torre cade ogni volta che la si costruisce perché sotto le danno
robuste spallate due draghi, uno rosso e uno bianco: è l' elemento fiabesco, a
cui nessun lettore vorrebbe rinunciare. Ma, d'altra parte, come ricordano i
grandi personaggi regali della Bibbia e - ancora - di Shakespeare, questi
sovrani di nome Uter, Pendragon, Vortigern, Artù, nobili ma assetati di potere,
a volte ingenui e a volte biechi, ora di grande raffinatezza, ora di irsuta
barbarie... E nettamente biblico (David, Betsabea, Uria, Joab, ci sono tutti,
sotto i nomi di Uter, Yguerne, il duca di Tintayol, Merlino) è l'episodio in
cui il re, malato d'amore per la moglie di un vassallo, riesce a farla sua con
l'aiuto dello stesso virtuoso Merlino; e da quel delitto, che costerà la vita
al marito di lei, nascerà il grande e saggio Artù, come nella Bibbia il grande
e saggio Salomone.
E' il preludio di colpa e di
ambiguità che ci fa accettare lo sconvolgente finale: la resa improvvisa di
Merlino all'incanto di una donna, Viviana, che farà di lui, per sempre, un'aquila
chiusa in gabbia. La consapevolezza con cui Merlino va incontro a quella sorte
dà, ancor oggi, un brivido che fa pensare al Tristano di Wagner. Ha dunque
vinto il demonio, infliggendo a quel suo figlio ribelle una particolarissima
dannazione? O l'uomo tutto spirito e intelletto, con mossa molto celtica, ha
finito per tornare al grembo materno, pre-razionale della Natura? O, checché ne
dicano i cavalieri e i sacerdoti di re Artù, il punto d'arrivo non è l'eroe
solitario ma la coppia edenica, prima del peccato o in convivenza con esso? Non
lo so, non voglio saperlo. O meglio, desidero che queste suggestioni mi ronzino
dentro tutte insieme. E' questo il vero amore romantico, ricca acquisizione
dello spirito europeo. Non quel sospirare al chiaro di luna, con sottofondo di
musica d'archi dell'orchestra Melachrino, che tanto cinema ha trasmesso ai
moderni trogloditi.
“la Repubblica” 22 febbraio 1985
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