21.8.13

Il mago Merlino era un dolce demonio (Italo A. Chiusano)

Del romanticismo tedesco, tra fine Settecento e primi dell' Ottocento, Friedrich Schlegel fu teorico geniale, anche se discontinuo. In una pagina famosa della rivista “Athenaum”, da lui diretta tra il 1798 e il 1800, egli eleva un inno a quel fantasma ancora poco delineato ma affascinante che è la poesia romantica. Una "poesia universale progressiva" che dovrebbe unire tutti i generi poetici, fondere vita e realtà, canto estatico e ironia, soggetto contemplante e cosa rappresentata, antico e moderno, culture e arti di ogni età e paese. Sogni, in buona parte, che nessuna poesia poteva realizzare appieno. D'altro canto però, intendendolo in altro modo, questo proclama si può adattare anche a forme di poesia già realizzate: a Omero e all'Antico Testamento, a Dante e a Shakespeare. I romantici se ne accorsero così bene che, oltre a produrre nuove opere creative, indagarono con occhi diversi tutta la poesia del passato o di nazioni fin lì neglette, e non solo con lo slancio del critico-rapsodo ma anche col rigore del critico-filologo. Tra le caratteristiche del romanticismo prospettate dallo stesso Friedrich Schlegel c'è il connubio tra arte e vita, proclamato con provocatoria consapevolezza. Donde l'influsso che, sugli studi e le creazioni dei romantici, ebbero le loro donne: non soltanto ninfe egerie come in passato, ma compagne di ricerca, colleghe di lotta e di trasgressione, modelli di personaggi letterari dalle doti programmatiche. Per Friedrich Schlegel fu l'intelligente e audace Dorothea, figlia del filosofo ebreo Moses Mendelssohn (amico e ispiratore di Lessing), moglie del banchiere Simon Veit, dal quale poi divorziò. Dorothea era diventata la sua amante, e fu un rapporto così intenso che Schlegel la prese a modello per un romanzo, Lucinde (1799), in cui si proclamava la libertà dei sensi (rivendicazione ancora settecentesca) e in più la fusione (il che è ben romantico) di spirito e carne, di sensualità e misticismo. Dopo Jena, i due amanti andarono a vivere a Parigi, e lì il loro rapporto cercò convalide di natura religiosa e sociale. Dorothea vi si fece protestante; nel 1804 i due si sposarono; nel 1808 si convertirono insieme al cattolicesimo.
Ma tra loro non c'era stato solo il connubio di eros e pietas, ma anche quello di eros e filologia. In quello stesso 1804 che vede il loro matrimonio, esce infatti uno dei tanti frutti della loro comune frequentazione della Bibliothèque Nationale, in cerca di antichi tesori: La storia del Mago Merlino, ora tradotta in italiano per l'editrice Studio Tesi da Silvia Alfonsi, con doppia introduzione della stessa Alfonsi e di Michael Miller (pagg. 280, lire 25.000).
Non tenterò nemmeno di districarmi dal fascinoso ginepraio dei miti, delle leggende, delle variazioni in versi e in prosa di quella matière de Bretaigne che si coagula intorno al ciclo di re Artù e della sua Tavola Rotonda, ciclo in cui il Mago Merlino brilla come un caldo topazio. E' una storia che comincia di buon mattino, con una Historia Britonum del IX secolo e la Historia Regum Britanniae (circa 1130) di Geoffrey of Monmouth, e che in particolare, per ciò che riguarda l' adattamento in prosa tedesca dei coniugi Schlegel, si concreta nel perduto poema Merlin di Robert de Boron, risalente più o meno al 1220 e di cui rimase solo una versione in prosa. Ma la "matière" è assai più antica: si perde nelle brume celtiche della preistoria pagana, e quanto al corso successivo, arriva fino alle rielaborazioni ottocentesche di Tennyson e di Wagner, influenza la favolosità polemica di Tolkien, permea le attuali proposte cinematografiche a base di Camelot, di Excalibur, di Spade nella roccia, buone per un pubblico tra l' infantile e il para-western.
Ma Dorothea (poiché fu lei, soprattutto, a lavorarci sopra) e Friedrich, che poco galantemente risultò il solo responsabile della duplice fatica, misero insieme un libro che - trascurato fino a pochi anni fa dagli studiosi - non esito a definire uno dei più belli di tutto il romanticismo. Anche a rischio di far torto a Robert de Boron, che ne è, per la massima parte, il vero autore. Ciò che mi fa definir romantico questo Merlino è la perfetta fusione di alto volo fantastico e di palpabile verità umana. Prendiamo l' inizio. I diavoli, invidiosi di Cristo che - figlio di una vergine - "infrange le porte dell'inferno", meditano di fabbricare anch'essi un bambino che, figlio di una vergine e di un demonio, procuri invece all' inferno strepitose vittorie. Perciò Satana distrugge un' intera famiglia, poi prende di mira le tre figlie superstiti: ne fa fuori due, nella vita e nel buon nome, poi si concentra sull'ultima, una santa ben consigliata da un eremita, e riesce a ingravidarla quand'essa non è cosciente. Il frutto di quello stupro sarà Merlino. Ma siccome è solo la libera volontà che costituisce peccato, Merlino sarà bensì figlio del demonio, ma nello spirito virtuoso e invitto di sua madre: non un paladino dell'inferno, ma un mago e profeta al servizio dell' amore, della giustizia, della lealtà. Ebbene, tutti questi trapassi, che potrebbero perdersi nella casistica teologica o banalizzarsi a puro romanzo sensazionale, ci scorrono invece davanti col calore e il colore della vita, hanno profondità drammatiche degne di Shakespeare, e insieme sono narrate con quella vegetale grazia un po' liberty che sembra caratteristica dei celti. Così i capitoli, diciamo storico-politici, intermedi. Certo, una torre cade ogni volta che la si costruisce perché sotto le danno robuste spallate due draghi, uno rosso e uno bianco: è l' elemento fiabesco, a cui nessun lettore vorrebbe rinunciare. Ma, d'altra parte, come ricordano i grandi personaggi regali della Bibbia e - ancora - di Shakespeare, questi sovrani di nome Uter, Pendragon, Vortigern, Artù, nobili ma assetati di potere, a volte ingenui e a volte biechi, ora di grande raffinatezza, ora di irsuta barbarie... E nettamente biblico (David, Betsabea, Uria, Joab, ci sono tutti, sotto i nomi di Uter, Yguerne, il duca di Tintayol, Merlino) è l'episodio in cui il re, malato d'amore per la moglie di un vassallo, riesce a farla sua con l'aiuto dello stesso virtuoso Merlino; e da quel delitto, che costerà la vita al marito di lei, nascerà il grande e saggio Artù, come nella Bibbia il grande e saggio Salomone.
E' il preludio di colpa e di ambiguità che ci fa accettare lo sconvolgente finale: la resa improvvisa di Merlino all'incanto di una donna, Viviana, che farà di lui, per sempre, un'aquila chiusa in gabbia. La consapevolezza con cui Merlino va incontro a quella sorte dà, ancor oggi, un brivido che fa pensare al Tristano di Wagner. Ha dunque vinto il demonio, infliggendo a quel suo figlio ribelle una particolarissima dannazione? O l'uomo tutto spirito e intelletto, con mossa molto celtica, ha finito per tornare al grembo materno, pre-razionale della Natura? O, checché ne dicano i cavalieri e i sacerdoti di re Artù, il punto d'arrivo non è l'eroe solitario ma la coppia edenica, prima del peccato o in convivenza con esso? Non lo so, non voglio saperlo. O meglio, desidero che queste suggestioni mi ronzino dentro tutte insieme. E' questo il vero amore romantico, ricca acquisizione dello spirito europeo. Non quel sospirare al chiaro di luna, con sottofondo di musica d'archi dell'orchestra Melachrino, che tanto cinema ha trasmesso ai moderni trogloditi.


“la Repubblica” 22 febbraio 1985

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