15.8.13

Ricordo di Gesualdo Bufalino (Giuseppe Traina)

«Non odio nessuno, ma odierei volentieri chiunque si rifiutasse di dubitare». Gesualdo Bufalino era così come ce lo consegna questo aforisma: un uomo particolarmente mite, ma anche tenacemente attaccato a poche certezze tradotte in saldi principi. E dedito a un'inesausta ricerca di verità- sulla vita, sulla morte, su Dio, sul Nulla. Al di là del clamore suscitato dal «caso» letterario (la curiosità «mondana» appuntata sull'esordio tardivo dell'oscuro e schivo professore in pensione), quello che probabilmente in lui spiazzava era la capacità, straordinaria per un uomo della sua generazione, di sporgersi con ineffabile grazia e inesausta sete di conoscenza su tutti gli aspetti della vita e della cultura contemporanea, senza restare mai invischiato nelle maglie dell'ultima moda e senza mai dismettere l'abito salutare dello scetticismo.
Bufalino ha così attraversato il postmoderno senza cedere - come altri scrittori italiani - alla tentazione di fame un'effimera bandiera, ma spremendone i succhi migliori, per esempio la disincantata e vagamente melanconica consapevolezza della propria e altrui condizione d'epigoni. Né poteva essere altrimenti per un uomo che, pur appartenendo per legge anagrafica alla generazione di Sciascia, Bassani, Primo Levi, Calvino, s'era però costruito una storia di scrittore lungo gli anni Ottanta e Novanta, quando alcuni fra i letterati suoi coetanei stavano morendo e lui invece si ritrovava ad esordire coi ventenni e i trentenni. Dai quali comunque lo distingueva qualcosa di sostanziale, di cui egli era sicuramente consapevole. Questi più giovani scrittori, infatti, appartengono a una generazione che ha valicato la «linea d'ombra» al riparo dai traumi della seconda guerra mondiale, della guerra civile, della ricostruzione, ed è cresciuta sotto l'ombrello protettivo del boom economico. Il che potrebbe spiegare perché la parte migliore dei giovani scrittori, anche quando si misura con le ferite più ulcerate del presente, preferisce farlo attraverso una serie di filtri raramente di matrice letteraria piuttosto che attraverso quello strenuo scavo esistenziale mediato dai libri e che ha condotto i grandi autori del nostro Novecento a un impavido «dialogo» con l'Altro - la morte, Dio, i mostri della coscienza individuale e collettiva - e che in Italia ha prodotto testi memorabili come Gli indifferenti, Il deserto dei Tartari, Tempo di uccidere, Se questo è un uomo, Paolo il caldo, L'isola di Arturo, Il Gattopardo, Il cavaliere e la morte. O Diceria dell'untore.
Appassionato e competente di cinema, teatro, musica, arti figurative, Bufalino è stato uno degli ultimi lette¬rati autentici della nostra letteratura: un letterato che scriveva dopo aver letto veramente «tutti i libri», dopo aver attinto a mille fonti di saggezza. I suoi libri nascevano dopo lunga riflessione, dopo avere scritto, cancellato, riscritto e mille volte corretto, nella solitudine di uno studio gremito di libri, lungo l'arco di una giornata di paese scandita da regolari abitudini e civili conversazioni.
Chi volesse misurarne la grandezza letteraria non ha che l'imbarazzo della scelta: può rileggere i memorabili attacchi dei suoi romanzi, sin da quel primo, indimenticabile «O quando tutte le notti - per pigrizia, per avarizia - ritornavo a sognare lo stesso sogno...» che inaugura la luttuosa sinfonia di Diceria dell'untore, o i versi ben torniti, come quel sontuoso sonetto giocato su due rime sole che apre Calende greche, o i racconti dell’Uomo invaso, arabeschi popolati da personaggi delle più diverse tradizioni letterarie o dai loro creatori, testi brevi ma densi di attualissimi e brucianti dilemmi morali che Bufalino seppe rivestire di una lussuosa patina ottocentesca. 0 può concedersi la lettura rilassata ma vigile di quel magico romanzo pluriprospettico ed esilarante che è Argo il ciec, non il suo testo più grande (che rimane Diceria dell'untore) ma certo quello dove si dispiegano tutti gli aspetti del suo variegato mondo intellettuale. E dovrebbe evitare di trascurare Calende greche, la sua pseudo-autobiografia che è invece biografia di tanti, di tutti gli uomini forse, una volta che si siano ricondotte a nuda essenzialità (nascita, crescita, dolore, amore, vecchiaia, morte) le diverse apparenze che mascherano la vita di ognuno.
Può aprire un libro a caso e godere della musica o della profondità di frasi come «Avevo perso la giovinezza come si perde un treno, e m'era restata nella mente, al suo posto, una crepa profonda e nera, che inutilmente bendavo di frasche e mascheravo di fiori. Sapevo che stava sempre lì, cicatrice d'inaccaduto, squarcio di non vissuto, che mi sentivo bruciare ogni sera sopra la guancia più d'uno sfregio di Zorro» (Argo il cieco). Può riflettere sulla sua figura retorica preferita, l'ossimoro, dato che la retorica è anche forma e sostanza del pensiero. Può valutare la grande libertà intellettuale che Bufalino si concedeva, vagabondando fra i generi letterari cosiddetti «minori»: l'aforisma, l'elzeviro, la traduzione.
Ma, limitandosi a compiere queste operazioni, si rischierebbe di dimenticare le sue esperienze di raffinato antologista (quel bellissimo Dizionario dei personaggi di romanzo); l'acume divertito di quelle che chiamava «perizie di parte», gli scritti brevi per cartelle d'incisioni o mostre d'arte; le sublimi «sicilianerie» raccolte in La luce e il lutto-, la letterata corrispondenza con Angelo Romano raccolta nel Carteggio di gioventù. E soprattutto la grande disponibilità a mischiare le carte, a confondere i «generi», in linea anche in questo con il suo grande amico e scopritore Leonardo Sciascia, della cui opera fu, seppure per brevi saggi, un interprete fra i più penetranti.
Bufalino - ossimorico come sempre - a proposito del futuro della letteratura scrisse che «forse è veramente cominciato il tracollo dell'umanesimo che amammo, forse si tratta solo d'una pausa prima d'un nuovo imprevedibile balzo. Nessuno può escludere che in questo stesso momento, in un asilo infantile di non so dove, un nuovo Dante, un nuovo Shakespeare stia con piccole dita incerte scarabocchiando su un foglio bianco le prime sillabe di un nuovo, inaudito alfabeto...» (Essere o riessere). Memori di queste sue parole, resisteremo dunque alla tentazione di dichiarare irrimediabilmente perduta la figura del letterato che - scrive Nunzio Zago - ha continuato a «coltivare una fiducia che già fu degli antichi Greci, ovvero che l'arte e la bellezza siano utili, servano alla buona vita». Potremo forse capire meglio quella splendida immagine che, unendo pudico understatement e onesta consapevolezza del proprio molo, Gesualdo Bufalino ripeteva in vari modi, e alla fine consegnò alle pagine aforistiche di Bluff di parole: «Simile a un colombo viaggiatore, il poeta porta sotto l'ala un messaggio che ignora».


“il manifesto”, 2000

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