«Non odio nessuno, ma odierei
volentieri chiunque si rifiutasse di dubitare». Gesualdo Bufalino era così come
ce lo consegna questo aforisma: un uomo particolarmente mite, ma anche
tenacemente attaccato a poche certezze tradotte in saldi principi. E dedito a
un'inesausta ricerca di verità- sulla vita, sulla morte, su Dio, sul Nulla. Al
di là del clamore suscitato dal «caso» letterario (la curiosità «mondana»
appuntata sull'esordio tardivo dell'oscuro e schivo professore in pensione),
quello che probabilmente in lui spiazzava era la capacità, straordinaria per un
uomo della sua generazione, di sporgersi con ineffabile grazia e inesausta sete
di conoscenza su tutti gli aspetti della vita e della cultura contemporanea,
senza restare mai invischiato nelle maglie dell'ultima moda e senza mai
dismettere l'abito salutare dello scetticismo.
Bufalino ha così attraversato il
postmoderno senza cedere - come altri scrittori italiani - alla tentazione di
fame un'effimera bandiera, ma spremendone i succhi migliori, per esempio la
disincantata e vagamente melanconica consapevolezza della propria e altrui
condizione d'epigoni. Né poteva essere altrimenti per un uomo che, pur
appartenendo per legge anagrafica alla generazione di Sciascia, Bassani, Primo
Levi, Calvino, s'era però costruito una storia di scrittore lungo gli anni
Ottanta e Novanta, quando alcuni fra i letterati suoi coetanei stavano morendo
e lui invece si ritrovava ad esordire coi ventenni e i trentenni. Dai quali comunque
lo distingueva qualcosa di sostanziale, di cui egli era sicuramente
consapevole. Questi più giovani scrittori, infatti, appartengono a una
generazione che ha valicato la «linea d'ombra» al riparo dai traumi della
seconda guerra mondiale, della guerra civile, della ricostruzione, ed è
cresciuta sotto l'ombrello protettivo del boom economico. Il che potrebbe
spiegare perché la parte migliore dei giovani scrittori, anche quando si misura
con le ferite più ulcerate del presente, preferisce farlo attraverso una serie
di filtri raramente di matrice letteraria piuttosto che attraverso quello
strenuo scavo esistenziale mediato dai libri e che ha condotto i grandi autori
del nostro Novecento a un impavido «dialogo» con l'Altro - la morte, Dio, i
mostri della coscienza individuale e collettiva - e che in Italia ha prodotto
testi memorabili come Gli indifferenti,
Il deserto dei Tartari, Tempo di uccidere, Se questo è un uomo, Paolo il
caldo, L'isola di Arturo, Il Gattopardo, Il cavaliere e la morte. O Diceria
dell'untore.
Appassionato e competente di cinema,
teatro, musica, arti figurative, Bufalino è stato uno degli ultimi lette¬rati
autentici della nostra letteratura: un letterato che scriveva dopo aver letto
veramente «tutti i libri», dopo aver attinto a mille fonti di saggezza. I suoi
libri nascevano dopo lunga riflessione, dopo avere scritto, cancellato,
riscritto e mille volte corretto, nella solitudine di uno studio gremito di
libri, lungo l'arco di una giornata di paese scandita da regolari abitudini e
civili conversazioni.
Chi volesse misurarne la
grandezza letteraria non ha che l'imbarazzo della scelta: può rileggere i
memorabili attacchi dei suoi romanzi, sin da quel primo, indimenticabile «O
quando tutte le notti - per pigrizia, per avarizia - ritornavo a sognare lo
stesso sogno...» che inaugura la luttuosa sinfonia di Diceria dell'untore, o i versi ben torniti, come quel sontuoso
sonetto giocato su due rime sole che apre Calende
greche, o i racconti dell’Uomo invaso,
arabeschi popolati da personaggi delle più diverse tradizioni letterarie o dai
loro creatori, testi brevi ma densi di attualissimi e brucianti dilemmi morali
che Bufalino seppe rivestire di una lussuosa patina ottocentesca. 0 può
concedersi la lettura rilassata ma vigile di quel magico romanzo pluriprospettico
ed esilarante che è Argo il ciec, non
il suo testo più grande (che rimane Diceria
dell'untore) ma certo quello dove si dispiegano tutti gli aspetti del suo
variegato mondo intellettuale. E dovrebbe evitare di trascurare Calende greche, la sua pseudo-autobiografia
che è invece biografia di tanti, di tutti gli uomini forse, una volta che si
siano ricondotte a nuda essenzialità (nascita, crescita, dolore, amore,
vecchiaia, morte) le diverse apparenze che mascherano la vita di ognuno.
Può aprire un libro a caso e
godere della musica o della profondità di frasi come «Avevo perso la giovinezza
come si perde un treno, e m'era restata nella mente, al suo posto, una crepa
profonda e nera, che inutilmente bendavo di frasche e mascheravo di fiori. Sapevo
che stava sempre lì, cicatrice d'inaccaduto, squarcio di non vissuto, che mi
sentivo bruciare ogni sera sopra la guancia più d'uno sfregio di Zorro» (Argo
il cieco). Può riflettere sulla sua figura retorica preferita, l'ossimoro, dato
che la retorica è anche forma e sostanza del pensiero. Può valutare la grande
libertà intellettuale che Bufalino si concedeva, vagabondando fra i generi
letterari cosiddetti «minori»: l'aforisma, l'elzeviro, la traduzione.
Ma, limitandosi a compiere queste
operazioni, si rischierebbe di dimenticare le sue esperienze di raffinato antologista
(quel bellissimo Dizionario dei
personaggi di romanzo); l'acume divertito di quelle che chiamava «perizie
di parte», gli scritti brevi per cartelle d'incisioni o mostre d'arte; le sublimi
«sicilianerie» raccolte in La luce e il
lutto-, la letterata corrispondenza con Angelo Romano raccolta nel Carteggio di gioventù. E soprattutto la
grande disponibilità a mischiare le carte, a confondere i «generi», in linea
anche in questo con il suo grande amico e scopritore Leonardo Sciascia, della
cui opera fu, seppure per brevi saggi, un interprete fra i più penetranti.
Bufalino - ossimorico come sempre
- a proposito del futuro della letteratura scrisse che «forse è veramente
cominciato il tracollo dell'umanesimo che amammo, forse si tratta solo d'una
pausa prima d'un nuovo imprevedibile balzo. Nessuno può escludere che in questo
stesso momento, in un asilo infantile di non so dove, un nuovo Dante, un nuovo
Shakespeare stia con piccole dita incerte scarabocchiando su un foglio bianco
le prime sillabe di un nuovo, inaudito alfabeto...» (Essere o riessere). Memori di queste sue parole, resisteremo dunque
alla tentazione di dichiarare irrimediabilmente perduta la figura del letterato
che - scrive Nunzio Zago - ha continuato a «coltivare una fiducia che già fu
degli antichi Greci, ovvero che l'arte e la bellezza siano utili, servano alla
buona vita». Potremo forse capire meglio quella splendida immagine che, unendo
pudico understatement e onesta
consapevolezza del proprio molo, Gesualdo Bufalino ripeteva in vari modi, e
alla fine consegnò alle pagine aforistiche di Bluff di parole: «Simile a un colombo viaggiatore, il poeta porta
sotto l'ala un messaggio che ignora».
“il manifesto”, 2000
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