Recensione di un libro che dà utilmente conto oltre che del
libro stesso, anche degli insopportabili pregiudizi del partito degli
“Antikraus”, di cui l’autore dell’articolo è insigne esponente. Ma la “stroncatura”
fallisce e, a ben leggere, risulta un involontario encomio, giacché i presunti
difetti qui denunciati sono forse i maggiori pregi, primo fra tutti
l’intransigenza. (S.L.L.)
Affascinante e terribile genìa,
quella dei fustigatori e degli apocalittici, dei satirici micidiali e degli
eversori profetici. Magari sostengono cose antitetiche, tanto che se s'incontrassero
si scannerebbero a vicenda. Ma come li accomuna l' intelligenza acre e la
passione rovente, il gesto declamatorio e l' improvvisa venatura grottesca. Si
chiamino Savonarola o Nietzsche o Sade, li apparenta un'aria di famiglia. La
loro audience va dall'entusiasmo più acritico al più isterico rifiuto.
Karl Kraus (1874-1936) è di
costoro: e forse, in questo campo, nell'area tedesca non ha rivali. Ebreo e
austriaco, anzi viennese di elezione (elezione di odio non meno che di arcigno
amore), ha fatto fischiare la sua frusta per trentasette anni buoni: quante
sono le annate della rivista Die Fackel
(La fiaccola: 1899-1936) ch'egli
diresse e in gran parte redasse da solo fino all'anno della morte. Non è comodo
fare, giorno per giorno, il cancelliere e il trombettiere, il buttafuori e il
magistrato del Giudizio universale. Che è, precisamente, ciò che Kraus fece in
quei trentasette anni, appollaiato sulla specola della piccola e grande Vienna.
Ma, lungi dall'essersene stancato, Kraus aveva, per quel mestiere, una tal
vocazione, che lo esercitò in altri due modi: le sue conferenze e pubbliche
letture, uno spettacolo che chiunque lo abbia visto ha descritto con colori
insieme affascinati e atterriti (valga per tutti Elias Canetti); e quello
sterminato dramma-poema, vera Divina
Commedia del nostro secolo, che è Gli
ultimi giorni dell' umanità (edito in Italia da Adelphi). Segno che non era
una vocazione fittizia, ma un elemento costitutivo della sua personalità.
Per decenni i viennesi, gli
austriaci, i tedeschi seguirono le battaglie e le arrabbiature, i sarcasmi e le
vere e proprie nequizie di Kraus con animo sospeso e deliziato, trovandovi
pascolo per tantissime propensioni: la malignità e la purezza, il senso dello
stile e la scoperta del nuovo, l'invidia verso certi grandi troppo incensati e
la stima verso altri grandi tenuti ingiustamente nell'ombra. Chi aveva il dente
avvelenato contro il giornalismo, l'affarismo, la politica corrotta, la
retorica più o meno venduta, il moralismo voyeuristico, in Karl Kraus trovò
sfogo e sostegno sino all'esagerazione e alla faziosità. Chi sapeva e voleva
odiare, magari per accensione istintiva e senza fondarsi troppo sulle prove, si
vide fornire da Kraus tutte le armi per sparare a volontà.
Talvolta è difficile non accusare
quest'uomo di malafede, di livore, di incoerenza. Ma, occorre aggiungere, ad
alta quota, e non senza una genuina, più volte straziante sofferenza che gli
dà, comunque, dignità e magistero. Non sempre il pubblico si accontentava di
leggere la Fackel. Benché fatta di
fascicoli spessi, buoni da allineare in biblioteca, era pur sempre una rivista.
Perciò, di tanto in tanto, Kraus accondiscese a stralciare certi pezzi e a
metterli in circolazione come libro. In Italia abbiamo conosciuto Morale e criminalità (Rizzoli), tutto
incentrato sul problema del sesso. Ora l' editore Lucarini, nella traduzione di
Paola Sorge e utilizzando una vecchia ma quasi classica introduzione di Cesare
Cases, ci fa conoscere il più fortunato e, a suo tempo (1910), più diffuso di
questi libri antologici: La muraglia
cinese (pagg. 220, lire 16.000).
Il saggio che dà il titolo al
volume e che lo conchiude in bellezza, tanto è splendidamente scritto, è
estremamente rappresentativo di Kraus e del suo modo di essere e di fare:
tematica, stile, lati forti e lati deboli della sua strategia. La tematica è
ancora quella della sessualità, come veniva miseramente e ipocritamente vissuta
nell' Austria della belle époque. Il
pretesto: un buon numero di distinte signore statunitensi, magari inalberando
la pia intenzione di cristianizzare i cinesi di Chinatown, finiscono amanti di
quei sorridenti figli d'Oriente, da cui si fanno anche iniziare al fumo dell'oppio.
Una di loro finisce addirittura strangolata e col volto coperto di calce viva:
gelosia? Sadismo? Demenza? Lo stile è del miglior Kraus: più tagliente di un
rasoio, con qualche indugio nell'arzigogolo prezioso, e improvvise balenanti
schiarite. I lati forti della sua strategia sono rappresentati dal coraggio, a
quel tempo (luglio 1909) inaudito, di dire certe cose: che la donna ha
naturalissimi appetiti sessuali che il matrimonio borghese non solo non
soddisfa ma addirittura nega; che i trascorsi cinesi di quelle signore vanno
non tanto condannati quanto capiti; che troppo spesso l'Occidente ha cercato di
risolvere la realtà del sesso col non parlarne o col demonizzarlo o con l'
angelicarlo, rendendo perverso e purulento ciò che era costretto a ristagnare
nel buio della repressione. I lati deboli sono una certa facilità di mescolare
le carte, facendo scarsissimo uso di quella facoltà veramente critica e
razionale che è la distinzione. Così, per Kraus, sono tutt'uno tre cose assai
diverse, come il moralismo borghese, la prassi sessuale della Controriforma e
la morale cristiana; così, nel fare un ritratto sbarazzinamente ottimistico
dell' uomo cinese, non aduggiato dal puritanesimo occidentale, disprezza
nietzscheanamente la difesa dei deboli o parla con strana indulgenza del
maschilismo cinese, che riduce la donna, fin da bambina, a oggetto di piacere.
Kraus era facile ai salti del cavallo, tali da spiazzare chiunque volesse
collocarlo in una determinata nicchia: e basterebbe il fatto che, l'anno dopo
aver pubblicato La muraglia cinese,
si fece battezzare cattolico nella Karlskirche di Vienna, avendo come padrino
il grande architetto Adolf Loos. (Nel 1923, con gesto altrettanto pubblico,
avrebbe abiurato).
Sul tema del sesso, del
pruriginoso e falso perbenismo borghese che trascina in tribunale chi
contravviene a certe norme e lo torchia cercando di fargli confessare
inclinazioni morbose e contro natura, Kraus ritorna in questo suo libro,
gettando un guanto di sfida al giornalista berlinese Maximilian Harden, che
aveva combattuto certi nefasti consiglieri del Kaiser Guglielmo II
screditandoli come omosessuali. Kraus, che era stato un ammiratore di Harden,
da quel momento lo investì e ridicolizzò con tutto il genio di cui il suo
malanimo era capace; e certo, non prendendo per buone le motivazioni politiche
di Harden ma solo quelle moralistiche e intolleranti, che Kraus considera le
uniche reali, Harden ne esce male. In altri saggi o articoli si prendono
decisamente le parti delle prostitute, oneste professioniste in regola almeno
con la natura, gettando schizzi di veleno contro chi le sfrutta e le coccola
nascostamente, salvo a considerarle demoni in gonnella quando la legge
s'interessa di loro. Ma il libro non indugia solo su questi temi: ed è un bene,
perché quando è in ballo l'ipocrisia sessuale Kraus diventa un truce moralista
a rovescio. Toni di una perfidia più elegante e talvolta quasi finto-bonaria
gl'ispirano altre sue bestie nere: la pubblicità, e il rincretinimento
sloganistico del cervello ch'egli sa vedere (e contraffare, maestro com' è di
citazioni e di maschere acustiche) con sorprendente anticipo sui tempi; il
becerume folcloristico con cui tutta una nazione segue le avventure di viaggio
d'una Corale maschile che va a farsi applaudire negli Stati Uniti; l'operetta
del suo tempo (tra cui la detestata Vedova
allegra) che degraderebbe nello psicologismo e nella verosimiglianza (pur
sempre ridicoli) la divina assurdità di quella di Offenbach; l' idea di un
progresso che non è nulla di sostanziale, ma solo un accavallarsi di finzioni e
di esteriorità che sacrificano l'uomo (in questo senso l'eversivo Kraus
manifesta una fortissima nostalgia aristocratica e restaurativa). E ancora: il
sensazionalismo fasullo dei media (allora non si diceva ancora così) che rende
la scoperta del Polo Nord assai meno seria di un pettegolezzo da cortile; la
sopravvalutazione di scrittori solenni e autorevoli (a chi avrà pensato, tra i
tanti suoi bersagli? A Stefan George, a Hugo von Hofmannsthal, a Thomas Mann?),
mentre ben pochi si avvedevano della squisita e malinconica levità dei bozzetti
di un Peter Altenberg; l'assurdità della gente, che si accorge dell' esistenza
di Kraus solo perché gli hanno rubato una costosa pelliccia...
Leggere questo
libro è come sottoporsi a un test dal quale risulti se siamo allergici o no a
Karl Kraus. Chi, dopo la lettura di questi trentotto articoli, esce annoiato o
disgustato, potrà riprovarci tra dieci anni, ma per il momento non è bene che
legga altro di questo autore. Chi ne vien fuori entusiasta, si butti sui libri
che abbiamo già nominato e sugli aforismi di Detti e contraddetti, e magari
impari il tedesco per leggersi il rimanente. Chi ivece ne riemerge turbato,
barcollante, incerto, abbacinato, non si scoraggi. Di tutte le reazioni che una
prima lettura di Kraus può provocare, credo che questa sia la più promettente:
quella che lo stesso Kraus si sarebbe augurato.
“la Repubblica”, 18 marzo 1989
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