Della nostalgia si dice
generalmente male. Ricordo la scena di un film con Macario (Come persi la guerra, credo) ove il
comico dichiara: “Brutta malattia la nostalgia. Ho conosciuto a Cuneo uno che
ne è morto”. Ma io ho l’impressione che invece, il più delle volte, la
nostalgia aiuti a vivere.
L’articolo qui
postato efficacemente riflette e comunica ricerche recenti di psicologia
sociale sull’argomento. A me ha riportato alla memoria letture importanti,
seppure lontane, nella Gela degli anni 70, soprattutto di notte, confermandomi
in una convinzione che ormai fa parte delle mie radici: l’intuizione
straordinaria e anticipatrice dei processi che si compiono dentro le anime che
possedeva Giacomo Leopardi.
Invito a rileggere (o a leggere) lo Zibaldone. (S.L.L.)
Nel 1999 uno psicologo sociale di
origine greca, Constantine Sedikides, si era da poco trasferito dall’Università
del North Carolina all’Università di Southampton, in Inghilterra. Come ha
raccontato recentemente al N.Y.Times, qualche volta, durante la settimana, era
colpito improvvisamente da attacchi di nostalgia per la sua vita negli Stati
Uniti e per i suoi vecchi amici. Uno psicologo clinico del suo dipartimento,
con cui gli era capitato di parlarne, gli aveva diagnosticato uno stato depressivo.
Solitamente la nostalgia è considerata come patologia, associata alla
melanconia e alla depressione. Sedikides, tuttavia, non si sentiva depresso.
La nostalgia, ha dichiarato, gli
fa sentire che la sua vita ha radici e continuità. Ciò fornisce una trama alla
sua esistenza e gli dà la forza di andare avanti. Rifiutando di vedere nella
nostalgia un sentimento negativo, ha impegnato il suo laboratorio di psicologia
sociale in una ricerca decennale che ha coinvolto gradualmente ricercatori di
tutto il mondo.
La ricerca ha mostrato che la nostalgia
controbilancia la solitudine, la noia e l’ansia. Le persone si sentono più
vicine e più contente quando condividono ricordi nostalgici. Clay Routledge dell’Universita
del North Dakota dice: «La nostalgia ha un importante funzione esistenziale: porta
alla nostra mente esperienze predilette che ci assicurano che siamo persone di valore
che hanno vite significative».
Sono affermazioni quasi ovvie ma
nondimeno importanti perché in controtendenza rispetto alla desoggettivazione
dell’esperienza umana che regna indisturbata nel campo della psichiatria,
sempre più dominata dalla psicofarmacologia (si può scommettere che in qualche laboratorio
già stanno sperimentando un farmaco che curi la nostalgia).
Il dato più interessante
riportato da Routledge è il fatto che le persone capaci di nostalgia riescono a
gestire meglio la paura della morte. Non conosciamo la nostra morte che in modo
indiretto (come presentimento) tramite le perdite che subiamo: se ne va un
oggetto e/o un contesto amato e insieme una parte della nostra esperienza, una
parte di noi. La nostalgia non è, tuttavia, lo strumento per curare la perdita ma
la prova che la cura funziona, che ha fatto effetto. Dietro la nostalgia c’è il
lavoro del lutto: l’assunzione interna dell’oggetto perduto e della relazione con
esso che ci consente di farlo rivivere in noi e di ritrovarlo, al tempo stesso,
nel mondo esterno in oggetti nuovi. Non è la ripetizione del medesimo ma l’incontro
del consueto con l’inconsueto, la trasformazione del paesaggio interno in
paesaggio esterno e viceversa. Il ricordo struggente di un tempo passato ci
dice che si tratta di un tempo (di una storia) vivente che continua a essere in
scena dentro di noi. La cosa perduta è diventata gusto, sentimento del vivere
che più è radicato nel passato più si appropria del futuro. Interiorizzando le situazioni
vissute intensamente, interiorizziamo anche la storia che le precede e le
attraversa e il nostro sentire diventa parte della molteplicità dell’esperienza
umana che trascende la nostra morte.
“il manifesto”, 20 luglio 2013
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