L’ultima pagina del manifesto
ospita spesso, rubricate come Le storie, inchieste su vicende e situazioni particolari, ma – a loro modo –
emblematiche. Questa, del luglio scorso, racconta la faticosa e lenta
riaggregazione dei lavoratori dopo il disastro di fine e inizio millennio. Tutto
questo avviene nella totale assenza della sinistra politica e – almeno per ora –
anche del sindacato; rappresenta comunque una piccola speranza. Sempre
meglio della disperazione. (S.L.L.)
La notte non è tenera.
Da un mese e mezzo un «gruppo di compagni»
– così si definiscono quando li incontro - si sono messi in testa di
organizzare i «lavoratori e lavoratrici della ristorazione» del Pigneto.
Periferia scassata fino agli anni ’90 e da qualche anno unico autorizzato
quartiere hipster di Roma: il nostro Williamsburg, la nostra Kreuzberg, si
dice, e così si estende la fama internazionale del luogo. Un po’ per
convincersi, un po’ perché è vero. E aiuta a non tirare in ballo la solita movida, che fa cafone.
Ma il «gruppo di compagni» non
teme la parola: «Per chi ci lavora – scrivono in un volantino – movida significa operare a ritmi
infernali in ambienti piccoli, fumosi e insalubri come molte cucine, finire il
turno in piena notte, avere scombussolato il ciclo fisiologico».
Volantini, megafono all’ora
dell’aperitivo, microassemblee fuori dai locali. Alcuni studenti di sociologia
che fanno parte del gruppo lavorano intanto a un’inchiesta stile anni ’60 sul
centinaio e passa di lavoratori nei bar e ristoranti del quartiere. Ogni
giovedì all’una e mezza è convocata un’assemblea nei locali del centro di
documentazione
Fucina 62. Li incontriamo qui.
Sono in pochi, ma se ne fanno una ragione. Salvatore, baffoni e cappellino, ha
memoria dell’intervento politico nelle fabbriche della zona, anni ’70, e parla
con amarezza di «precarizzazione strutturale». Inizi da studente fuorisede per
arrotondare, o da immigrato per campare; accetti di lavorare in nero o con
finti part-time, e ti ritrovi imprigionato per dieci anni tra gli stessi
tavolini, nella stessa cucina, davanti a una friggitrice che schizza con la
cappa che tira male.
«Prendo 40 euro al giorno per 8
ore, dalle 6 del pomeriggio alle 2 di notte, ma le ore possono diventare anche
10», dice Daniele, ventenne cameriere in uno dei bar d’infilata nella zona
pedonale del quartiere. Ci racconta della veloce rotazione dei colleghi,
soprattutto con l’estate, della difficoltà di prendersi le pause anche solo per
una sigaretta e del piccolo aumento ricevuto dopo 2 anni di lavoro. «Ma da
quando hanno capito che non sono così docile – sorride subito – la mia capacità
contrattuale è molto calata». Si legge ancora sul volantino dell’Assemblea: «Chiedere
un miglioramento di carattere economico, rallentare i ritmi di lavoro, difenderci
collettivamente».
Oltre le difficoltà oggettive di
avere a che fare con un organizzazione del lavoro «tornata all’Ottocento», come
si ripeterà in questa conversazione ogni dieci minuti, la forza dell’iniziativa
è quella di essere davvero spiazzante in questo contesto. In questo ex quartiere
«rosso» di ferrovieri, tramvieri e ex partigiani, con le casette basse
santificate da Pierpaolo Pasolini, la tangenziale est di Fantozzi, i vecchi
tram, le ferrovie, la nuova metropolitana in perenne costruzione.
E oggi contenitore meticcio di
studenti fuorisede, ciclisti urbani, negozietti bangla, file di ristoranti di
qualche pretesa, bio e vintage, accanto ai neon del kebabbaro, con l’angolo dello
spaccio e il vecchio mercato al mattino. Certamente «alternativo».
Tendenzialmente sensibile quindi a interrogarsi sul destino di chi sta in
cucina o dietro il bancone, proprio come da tempo ci si interroga sulla
provenienza dei cibi, delle scarpe da ginnastica, dei telefonini persino.
Allegro fino all’ora
dell’aperitivo, il Pigneto si fa più cupo e punkabbestia nelle ore della notte,
secondo il mood di quella che il Censis
in una ricerca recente ha definito «malamovida». Il fenomeno riguarda un po’
tutta Europa. I dati rivelano che la percezione della stragrande maggioranza
degli italiani nei confronti della movida è positiva, nonostante tutto. In 19
milioni, calcola il Censis, escono la sera e la notte. Più di quattro milioni,
soprattutto venti-trentenni, frequentano con regolarità i luoghi della notte in
città e provincia. Commissionata dalla Confcommercio, la ricerca punta il dito soprattutto
sull’effetto deleterio della gran circolazione di alcool di cattiva qualità e
basso costo, in barba a ogni regola. E non cerca, a dire vero, scappatoie: «La
complessità non si governa a colpi di ordinanze, neppure creative».
Del resto, rispetto alla movida e
alla sue degenerazioni, in molti avanzano ricette di ordine pubblico, altri
tirano in ballo regole commerciali e qualcuno evoca buona educazione. Quasi
nessuna di queste ricette ricorda quelli che stanno nella sala macchine del
battello ebbro, per citare sportivamente Rimbaud. «Camerieri e cameriere bianche
e carini fra i tavoli, e immigrati in cucina», spiega ancora Daniele.
E Lucia. Lucia si è aggiunta alla
nostra discussione in ritardo. È magra e ha l’aria stanca. Lavora fino a tarda
notte con altre ragazze nella cucina di quello che lei chiama un fast-food.
«Prima ci siamo parlate tra di noi – racconta – e poi abbiamo telefonato ai
capi». Risposte? «Tutte cazzate. I capi, in gran parte di questi locali, sono
soltanto i proprietari, ci mettono i soldi e non sanno niente del lavoro di
cucina». Eppure molti qui, intervengo, mettono in menù prodotti biologici, a
kilometri zero, artigianali. «Noi saremmo in grado di fare cose molto più
buone», continua Lidia, e parla con orgoglio ora, «se solo potessimo lavorare diversamente,
con più lentezza. Ma in queste condizioni non è possibile».
Intanto alla nostra discussione,
non invitata, si aggiunge Giulia Pietroletti, il nuovo assessore all’Igiene del
Municipio. Sui trent’anni, eletta in una lista civica, nata qui nel quartiere. Sta
cercando di farsi un quadro della situazione e annuncia la possibilità di
intensificare i controlli della Asl e dei vigili nella zona. Lidia e Daniele la
interrompono: «Lo sanno tutti come funzionano i controlli. Qualcuno avverte
prima e come per magia è tutto a posto: i tavolini rientrano di dieci metri,
chi è in nero sparisce». «Io non chiamerò mai vigili e Asl – insiste Lucia –
l’ultima volta che si sono fatti vedere hanno preso 200 euro a testa e se ne
sono andati».
La movida, raddoppio della
precarietà del giorno fino nel cuore della notte, vive sul filo delle regole,
spesso di espedienti. I residenti incolpano i consumatori e i vigili, i
consumatori se la prendono coi prezzi alti e coi residenti, i gestori dei bar
se la prendono con gli affitti, coi bangla che vendono birre da 66 sottocosto.
«Noi vogliamo partire dall’organizzazione del lavoro», dice Salvatore. «I
lavoratori sono in grado di rallentare la movida, di bloccarla del tutto, se
trovano la forza necessaria». E annuncia prossime assemblee volanti nelle
strade, picchetti, uomini sandwich davanti ai locali.
Intanto l’inchiesta va avanti,
raccoglie storie e esperienze, scopre chi si comporta male e chi malissimo tra
i gestori dei locali: chi licenzia, chi sottopaga e chi maltratta. Proprio in
un quartiere nel quale le attività commerciali basano la propria attrattiva sull’autenticità
dei luoghi e pure su una certa vaga memoria de sinistra, la rivolta dei mozzi
della nave potrebbe avere effetti sorprendenti.
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