Nello scorso novembre 2012 la
celebrazione italiana del secondo centenario delle Fiabe dei fratelli Grimm si svolse all’Istituto Goethe di Roma con
un discorso dello studioso americano Jack Zipes, di cui “La Stampa” ha ripreso
alcuni stralci. Quelli che qui sono “postati”. (S.L.L.)
Ciò che affascinava o imponeva ai
Grimm di concentrarsi sull’antica letteratura tedesca era la convinzione che le
forme culturali più pure e spontanee - quelle che tenevano insieme una comunità
- fossero quelle linguistiche e che bisognasse rintracciarle nel passato. Essi
ritenevano inoltre che la letteratura «moderna», per quanto assai ricca, fosse
una creazione artificiale e in quanto tale incapace di esprimere l’essenza
genuina della cultura del Volk, che
scaturiva in modo spontaneo dalle esperienze degli individui e li teneva
insieme. Per questo dedicarono tutte le loro energie alla riscoperta delle
storie del passato. E per questo il loro amico, il poeta romantico Clemens
Brentano, chiese loro di raccogliere ogni genere di racconto popolare con
l’intento di servirsene per un volume di fiabe letterarie. Nel 1810 essi gli
inviarono 54 testi che per fortuna ricopiarono. Dico per fortuna, perché
Brentano finì col perdere il manoscritto nel monastero di Ölenberg in Alsazia e
non utilizzò mai quei testi.
Ma nel frattempo i Grimm
continuarono a raccogliere le fiabe da amici, conoscenti e colleghi, e quando
capirono che Brentano non avrebbe più utilizzato il loro manoscritto, decisero
di seguire il consiglio del comune amico e autore romantico Achin von Arnim e
di pubblicare la loro raccolta, che nel frattempo era arrivata a comprendere 86
storie - quelle che per l’appunto pubblicarono nel 1812 e cui si aggiunsero le
altre 70, che pubblicarono nel 1815. Queste due raccolte costituirono la prima
edizione, corredata di note e prefazioni scientifiche.
[...]
Pur non avendo ancora del tutto
formulato la loro teoria del folclore e malgrado le differenze esistenti tra
Jacob e Wilhelm - quest’ultimo avrebbe poi infatti optato per una più decisa
revisione poetica dei testi raccolti - i fratelli si attennero in sostanza al
loro intento originario dal principio alla fine del lavoro sui Kinder-und
Hausmärchen: recuperare i resti del passato. In senso più generale, i Grimm cercarono
di raccogliere e preservare come gemme sacre e preziose ogni genere e tipo di
traccia del passato, vale a dire racconti, miti, canti, favole, leggende,
epopee, documenti o altre forme di creazione - dunque non solo fiabe. L’intento
era di rintracciare e cogliere l’essenza dell’evoluzione culturale e dimostrare
come la lingua naturale, che sgorgava dai bisogni, dagli usi e dai rituali
della gente comune, creasse legami autentici e contribuisse a modellare le
comunità civili. È questa una delle ragioni per cui definirono la loro raccolta
un manuale educativo (Erziehungsbuch), in quanto le fiabe richiamavano ai
valori basilari dei popoli germanici e degli altri gruppi europei e l’uso di
raccontarle aiutava gli individui a far luce sulle loro stesse esperienze.
[...]
I Grimm cercavano di valorizzare
e sostenere la necessità di raccontare storie per creare legami tra gli
individui i quali, proprio attraverso il racconto, mettevano in comune le
proprie esperienze. Erano convinti che ogni storia e ogni sua variante fossero
importanti per mantenere viva la tradizione culturale. Essi rispettavano la
differenza e la diversità e allo stesso tempo affermavano che «lo scopo della
nostra raccolta non era solo servire la causa della storia della poesia. Il
nostro intento era che la poesia insita in essa producesse un effetto, quello
di procurare piacere ovunque possibile, diventando perciò un manuale
educativo».
[...]
Se c’è un’edizione delle fiabe
dei Grimm che meglio rappresenta gli intenti e gli ideali che essi perseguirono
fino al 1857 è senz’altro la prima, poiché essi non ne cesellarono né
rifinirono le storie come fecero nelle successive edizioni. In esse riusciamo
infatti a percepire distintamente le voci dei raccontatori da cui i Grimm le
ricevettero e in questo senso le storie, alcune anche in dialetto, sono più
autenticamente popolari e genuine, benché talvolta non esteticamente gradevoli
come le versioni poi rifinite. In altre parole, i Grimm lasciarono parlare le
storie stesse in un modo assai schietto se non proprio grossolano, il che dona
a esse quel senso di verità pura e semplice o quel valore educativo voluto dai
Grimm.
Soffermandosi sulle fiabe della
prima edizione, la prima cosa che il lettore potrà notare è che molte storie
furono eliminate dalle successive edizioni per varie ragioni, non narrative, ma
in quanto sprovviste dei requisiti voluti dai Grimm, che in prima istanza si
sforzavano di pubblicare fiabe di chiara origine tedesca. Per esempio, Il gatto con gli stivali, Barbablu, Principessa Pel di topo e Okerlo
furono considerate in seguito troppo francesi per essere ripubblicate. Più
tardi i Grimm capirono che questo era un criterio sbagliato, perché era e resta
impossibile conoscere le origini certe delle fiabe popolari. Malgrado non sia oggi
possibile sapere con certezza perché alcune fiabe furono poi omesse o spostate
nelle note, di altre come La Morte e il
guardiano d’oche sappiamo invece che venne levata per i suoi tratti
letterari barocchi; La matrigna, per
la sua natura frammentaria e brutale; Gli
animali fedeli, per la sua derivazione dal Siddhi-Kür, una raccolta di
fiabe della Mongolia. Col tempo, via via che continuavano a raccogliere
varianti provenienti da fonti orali o scritte, ricevute da amici e colleghi, i
Grimm rimaneggiarono alcune fiabe della prima edizione combinando le diverse
versioni, sostituendo altre con le nuove e spostando altre ancora nelle note di
commento.
La seconda cosa che il lettore
potrà notare nelle fiabe della prima edizione è che molte di esse sono più brevi
e incredibilmente diverse rispetto alle versioni pubblicate nelle successive
edizioni. In esse c’è un sapore di oralità e di materia viva. Raperonzolo, per
esempio, svela di essere rimasta incinta del principe; la madre di Biancaneve,
e non la matrigna, vuole uccidere la sua bellissima figlia per invidia. In
terzo luogo, il lettore noterà subito che tutte queste fiabe sono scarne e poco
o per niente descrittive. L’enfasi è tutta sull’azione e sulla soluzione dei
conflitti. Chi le racconta non mena il can per l’aia. È propenso a comunicare
le verità che conosce e anche quando ci sono di mezzo magia, superstizioni,
trasformazioni miracolose e brutalità, crede nelle sue storie. La metafora
traccia una mappa della realtà di chi ascolta e spinge le persone a imparare
dai simboli in che modo affrontare le loro realtà.
“La Stampa”, 30/11/2012
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