13.8.13

Eduardo:"La vita come la sala d’attesa del dentista” (Gianni Manzella)

In morte del grande attore e drammaturgo napoletano un breve, intenso, onesto profilo biografico. Da leggere e da conservare. (S.L.L.)

«Ho sempre ritenuto il mondo una sala d'attesa, come quella dove si sta ad aspettare di andare a cavarsi un dente». Adesso che è venuto il suo turno, queste parole ascoltate solo pochi giorni fa illuminano col contrasto crudo di un flash la lunga vita d'artista di Eduardo. Lavorare infaticabilmente in attesa di qualcos'altro di innominabile. Fino all'ultimo.
Lo si aspettava a Venezia a metà di ottobre per l'omaggio che gli riservava una Biennale - teatro non a caso dedicata ai rapporti fra testo e scena, fra autore e attore, due poli che si riunivano emblematicamente nella sua persona. Malato non era potuto venire, aveva telegrafato da Salsomaggiore dove era in cura. Ma la sua voce si era udita ugualmente fra gli affreschi del Tiepolo a Palazzo Labia grazie a un video che sintetizzava le molte ore di lezione tenute all'università di Roma; un corso di drammaturgia, che conduceva gli allievi a misurarsi concretamente con la scrittura ma anche una miniera di aneddoti, di ricordi personali.
Il ritratto di una grande vecchiaia. Una infinita sapienza teatrale da spendere tutta. Anche dopo aver abbandonato le scene, ormai ottantenne, e la nomina a senatore da parte di Pertini nel settembre 1981. («Non chiamatemi senatore; ho impiegato una vita a diventare Eduardo; diventare senatore può capitare a chiunque»). Le regie del figlio Luca, una scuola di drammaturgia a Firenze, la traduzione in napoletano della Tempesta scespiriana; fino all'ultima apparizione, nei panni del vecchio maestro nel Cuore di Comencini, che ancora una volta restituiva la magia di quei suoi testi rarefatti, di quel suo impaccio delle parole. Frutto estremo di ottant'anni passati sulla scena.
Figlio d'arte nato con il secolo, Eduardo a quattro anni è già sul palcoscenico, quello romano del Valle, vestito da cinesino. Poi insieme ai fratelli Titina e Peppino tanti altri piccoli ruoli nella compagnia di Eduardo Scarpetta prima di passare a quella del figlio Vincenzo dove entrerà stabilmente nel 1914 e resterà fino al '20. I teatri più popolari di Napoli, le farse e la rivista, i melodrammi recitati senza musica: le forme basse dello spettacolo che saranno poi prosciugate nella rappresentazione di un universo sociale che si dilata al di là dei suoi stretti confini geografici.
«Ho cominciato facendo il servo di scena e non me ne sono vergognato. Sono stato generico in teatri per sordi». Era l'unica scuola del teatro, e da quella nascono anche le sue commedie che sono prima di tutto dei copioni, perché «servono i copioni per fare le compagnie». E nel 1930 i fratelli formano finalmente una compagnia propria, il «Teatro umoristico di Eduardo De Filippo con Titina e Peppino». Fanno avanspettacolo in giro per l'Italia Tornano a Napoli e alla fine del '31 al cinema Kursaal presentano la prima stesura di Natale in casa Cupiello, un solo atto recitato fra una proiezione e l'altra. Il successo clamoroso li porta finalmente ad un teatro vero, il San Nazzaro. Restano insieme per 15 anni, ora si chiamano «I De Filippo», le commedie si allungano a due o tre atti, c'è l'incontro con Pirandello di cui mettono in scena tra l'altro Il berretto a sonagli, un te¬sto che Eduardo farà «suo», che entrerà stabilmente nel suo repertorio (la quarta ripresa si è vista cinque anni fa) come avvenuto solo per il «padre» Scarpetta.
C'è anche il cinema, poco amato: «Non dà neppure soddisfazione, dà solo la futura vergogna; l'attore quando muore, deve morire e basta, deve sparire, non deve restare questa falsa ombra». Ancora la morte e il suo dopo. Ora però ci sono le opere, qualcosa destinato a restare. Dopo la guerra è solo con Titina: debuttano al San Carlo di Napoli nel '45 con Napoli milionaria che apre una fase nuova della sua drammaturgia, quella della maturità, la Cantata dei giorni dispari. Dell'anno successivo sono i due capolavori Questi fantasmi e Filumena Marturano. Ma anche questi nati sulla scena per la scena. Non a caso più tardi si divertirà a raccontare come scrisse le Voci di dentro in una settimana, chiuso in un albergo di Milano, nel '48, perché Titina si era ammalata improvvisamente e bisognava avere una nuova commedia in cui la sua presenza non fosse indispensabile.
I suoi testi (che pure avranno all'estero interpreti grandissimi, da Lawrence Olivier a Ralph Richardson) non bastano da soli a far capire cosa è stato Eduardo, perché non tengono conto del suo essere sulla scena, dei suoi silenzi, di quel che sta prima e dopo la parola, una parola «combattuta» dall'attore. Effetti disseccati sino a essere elementari, come un semplice movimento dello sguardo, tanto da sembrare naturali, nascere in maniera spontanea, mentre invece dietro c'è un calcolo preciso, «da ragioniere». C'è la fatica dell'attore assunta a metro interpretativo. L'attore deve essere stanco, l'entusiasmo gli fa fare gesti inconsulti. La battuta va detta con la massima semplicità, per far ridere il pubblico. Mai scoprire le carte prima della fine, altrimenti il pubblico se ne va. Quasi una serie di regolette, ma tirate fuori a una a una dal lavoro di ogni sera. Gli anni della consacrazione internazionale sono anche quelli che ne rivelano la «severità», il rifiuto dei compromessi. Polemicamente abbandona Napoli e il suo teatro, il San Ferdinando, comprato nel '54 distrutto dai bombardamenti e rimesso faticosamente in attività. Non abbandona invece il pubblico.
Nel '74 a sorpresa si affaccia alla ribalta del teatro Eliseo, a Roma, per annunciare che deve interrompere le repliche di Gli esami non finiscono mai per sottoporsi a un intervento chirurgico, l'applicazione di un pace-maker cardiaco. Nessuno va a chiedere il rimborso dei biglietti. Lui è di nuovo in scena lo stesso mese. Sempre il teatro, per non pensare a quel dente da cavare. «Noi abbiamo bisogno di distrarci da questa idea. È questo che ha fatto nascere l'arte di Michelangelo». Adesso possiamo aggiungere l'arte di Eduardo, felici nella tristezza della sua morte, di averlo potuto vedere sulla scena.


“il manifesto”, 2 novembre 1984

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