E’ del mese scorso la
presentazione dello rapporto dell’Osservatorio sociale europeo, un importante
centro di ricerca con sede a Bruxelles. Il sito Sbilanciamoci.info ha pubblicato una sua illustrazione commentata di
Cecilia Navarra e Fabio De Franceschi che volentieri in gran parte riprendo.
(S.L.L.)
L'Atomium di Bruxelles |
Lo scorso venerdì 5 luglio
l’Osservatorio Sociale Europeo (Ose), un centro di ricerca e studi sulle
politiche sociali e del lavoro nell'Unione Europea, con sede a Bruxelles, ha
presentato il suo nuovo studio sullo stato sociale dell’Unione Europea, redatto
dal team di ricerca dell'Ose in collaborazione con l’Etui (l’istituto di
ricerca della Confederazione europea dei sindacati) e altri ricercatori di
caratura internazionale in ambito economico e delle politiche sociali.
L’Osservatorio non ha lesinato critiche alla linea di politica economica
attualmente predominante in Europa.
Il primo messaggio del rapporto
può essere così riassunto: l’austerità è il problema, non la soluzione. È la
Commissione stessa a rilevare, in un recente issue paper, come l’Europa sia, a 5 anni dallo scoppio della crisi,
l’unica delle principali macroregioni dove la disoccupazione non sta calando.
Il numero di persone che vive in famiglie senza redditi da lavoro aumenta, così
come quello delle persone che patiscono forme di deprivazione materiale. Il
rapporto cita voci critiche provenienti dalle istituzioni internazionali: l’Ilo
denuncia gli effetti recessivi dell’austerità nel rilevare il pessimo risultato
europeo in termini di occupazione (giovanile in particolare) a fronte di
migliori situazioni di paesi che hanno adottato politiche economiche diverse.
Non solo: per concentrarsi sull’austerità, l’Ue ha rinunciato a perseguire una
ben più necessaria politica di regolamentazione dei mercati finanziari. Persino
il Fmi ha iniziato a mettere in dubbio la strategia della “crescita austera”:
tagli di bilancio troppo aggressivi stanno avendo effetti recessivi talmente forti
che anche il rapporto debito/Pil ne risulta aumentato. Ancora più inaspettata è
l’osservazione per cui questa strategia non serva neanche ad attrarre capitali:
gli investitori non scelgono solo in base a debito pubblico e tassi di
interesse, ma anche in base a crescita e produzione aggregata, che a loro volta
sono penalizzate dalle politiche restrittive.
Le politiche europee, però, non
si stanno sostanzialmente adeguando a queste osservazioni: le iniziative volte
a favorire la crescita e il rilancio della dimensione sociale rischiano di
essere poco più che scatole vuote. L’Ose, per bocca del suo co-direttore David
Natali, richiama invece l’attenzione sull’importanza di due riforme
istituzionali: quella del Patto di stabilità e crescita e quella della Banca
centrale europea. Riguardo la prima, l’Ose si è fatto negli ultimi anni
paladino dell’idea che l’Ue si debba concentrare sui “social investments”,
ovvero tutti quegli investimenti che andrebbero ad accrescere e rafforzare il
capitale umano; questi dovrebbero essere inoltre esclusi dal calcolo del
deficit. Questo può rappresentare la base per un rilancio della knowledge
economy europea. Il ruolo della Bce è invece centrale per l’economista Paul de
Grauwe, secondo cui la vera crisi, oggi, è la depressione approfondita dalle
politiche di austerità, non la minaccia finanziaria sui debiti pubblici, che è
stata “stoppata” dall’intervento della Bce con il cambio di ruolo voluto da
Mario Draghi, che porta la banca ad un ruolo effettivo di “prestatore di ultima
istanza”. Questa è stata per De Grauwe una scelta molto positiva, per quanto
indebolita dalle rigide condizionalità alle operazioni di acquisto dei bond da
parte della Bce: il rischio è che, per accedere al sostegno della banca
centrale, i Paesi debbano sprofondare in recessioni dovute a politiche
restrittive. Il passo successivo è secondo il team dell’Ose quello di procedere
a una riforma del mandato della Bce aggiungendo all’obiettivo del controllo
dell’inflazione quello del supporto alla crescita e all’occupazione.
Il secondo campanello d’allarme
che emerge fortemente dal rapporto è l’incremento degli squilibri all’interno
dell’Eurozona. Il rapporto dedica un interessante capitolo a spiegare come, di
fronte ai tagli all’istruzione operati da molti dei paesi membri, i tentativi
di armonizzare gli standard a livello europeo siano lontani dall’ottenere i
risultati sperati. Particolare attenzione merita l’analisi dell’andamento dei
salari: in 18 su 27 Paesi, tra il 2010 e il 2012, i salari si sono ridotti.
Questa tendenza è stata incoraggiata dalla Commissione europea, tramite
raccomandazioni a favore della riduzione dei salari dei dipendenti pubblici,
della riduzione dei salari minimi e dell’indebolimento della contrattazione
collettiva. Nel discorso della Commissione questo avrebbe dovuto colmare il gap
di competitività tra i paesi debitori e i paesi creditori, ma la realtà è stata
molto diversa: la riduzione dei salari, che trascura altre determinanti della
competitività, ha invece acuito la crisi di domanda e la spirale recessiva,
aumentando i divari intra-europei. (…) Mentre il debito dei paesi del Sud
Europa sta continuando a crescere, i paesi del Nord, Germania in primis, hanno
invece stabilizzato il rapporto debito/Pil. I paesi nord-europei devono
smettere di perseguire il pareggio di bilancio e assumersi il carico di
trainare la ripresa, prosegue De Grauwe: la sua proposta è quella non di
perseguire il pareggio di bilancio, ma di mantenere costante il livello del
debito in rapporto al Pil. Non c’è ragione di pensare che questo renda
difficile alla Germania l’accesso al credito, dato che i bassissimi tassi di
interesse di cui il governo tedesco attualmente beneficia sono un segnale che
gli investitori hanno in realtà fame di debito tedesco.
In conclusione, il rapporto
evidenzia una nuova fase della crisi, una crisi sociale e politica, che è il
prodotto dell’austerità e della depressione. Il pericolo di una recessione
double dip si è materializzato dal momento che l’Unione Europea si è legata le
mani, impedendosi di portare avanti politiche anticicliche.
Il dibattito attorno alla
presentazione del rapporto si conclude con un’interessante domanda: se è
necessario un cambio di paradigma rispetto all’austerità, che si fondi su un
rilancio in termini di crescita sostenibile e di investimenti in welfare e
conoscenza, qual è la coalizione politica capace di portarlo avanti? È
necessario innanzitutto far uscire queste parole d’ordine dalla marginalità in
cui il consenso trasversale pro-austerità le ha relegate. Crediamo che i
critici dell’austerità e sostenitori di un rilancio “sociale” e “verde” siano
stati relegati in uno spazio politico considerato “estremista”. Riteniamo,
invece, che sia, non solo più ragionevole, ma anche più “europeista” chi oggi
critica l’austerità e propone modelli radicalmente diversi. Ci auspichiamo che
la sinistra europea arrivi alle elezioni del 2014 avendo maturato un nuovo
paradigma e non solo iniziative di rilancio sotto-finanziate e puramente
“cosmetiche”. Un radicale cambiamento rispetto alle politiche di austerità sarà
uno dei più importanti parametri su cui misurare la capacità della sinistra di
essere vicina alle reali esigenze delle persone.
*La versione integrale
dell’articolo su www.sbilanciamoci.info
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