Nel 2004 il presidente Ciampi concesse a Graziano Mesina, un ergastolano con molti delitti a carico che era stato per il banditismo sardo più che un capo un modello. Il quotidiano comunista “il manifesto” pubblicò nell’occasione e l’articolo che qui riprendo.
La vicenda di Mesina in verità non si conclude con la grazia. Nel giugno scorso il celebre bandito è stato riarrestato: sarebbe ora a capo di ben due potenti e moderne organizzazioni criminali dedite soprattutto al traffico di droga. Ma non è cessato del tutto l’alone romantico che circonda la sua giovinezza di banditismo agropastorale: ancora a metà luglio è circolato in rete un video del rapper di Sant’Antioco (nel Sulcis), Fabrizio Cabras che avrebbe voluto, per sua stessa dichiarazione celebrare la leggenda di Grazianeddu, ma che ha suscitato dure reazioni a Orgosolo e in tutta la zona perché trasmetterebbe un’immagine deformata delle popolazioni barbaricine.
La scheda che correda l’immagine è tratta anch’essa dal “manifesto” e non è – ovviamente – aggiornata agli ultimi eventi. (S.L.L.)
«La mia casa adesso è abbandonata. I turisti che arrivano a Orgosolo vanno a vederla. Due stanze da letto, una cucina, una piccola cantina. La notte, se non eravamo nei campi, noi bambini dormivamo in cucina. E' la casa dove sono nato, il 4 aprile del 1942, penultimo degli undici figli, otto maschi e tre femmine, di Pasquale, contadino e pastore, e di Caternina Pinna». Sono le prime righe dell'autobiografia che Graziano Mesina ha dettato al suo avvocato di fiducia, Gabriella Banda, e a un giornalista del Giorno, Gabriele Moroni. Il racconto di una vita, pubblicato nel 1993 con il titolo Io, Mesina.
La prima volta
Quando finisce per la prima volta in carcere, Graziano Mesina ha appena compiuto 18 anni. Una sera di maggio del 1960, per festeggiare un gruppo di ragazzi di Orgosolo che partivano per la visita di leva, gli amici, per strada, sparano con le pistole contro i lampioni. C'è anche Graziano, che viene arrestato per porto abusivo d'armi e danneggiamenti. «Mi chiusero in camera di sicurezza. C'era una porta massiccia con uno spioncino che ogni tanto si apriva. Un bugliolo di legno. Una branda. La mattina chiesi di uscire per i bisogni fisiologici e mi accompagnarono al bagno. Con i miei scarponi da pastore tirai tre pedate alla porta. "Sta' calmo", mi disse, bonario, il carabiniere, e si allontanò fischiettando. Quella porta non voleva cedere. Era stata rimessa a posto da poco e resisteva. Mi accorsi che sotto la branda c'erano delle stecche ci ferro. Ne usai una come un piede di porco. Ricavai una fessura, l'allargai. Il muro crollò. Uscii dal portone. In casa raccolsi pane e formaggio in una bisaccia. "Me la filo", dissi a mia madre».
Era la prima delle sue nove evasioni. I guai veri cominciano pochi mesi dopo. Il 4 luglio del 1960 viene sequestrato Pietrino Crasta, un commerciante di Berchidda, piccolo paese della Gallura. Il 12 luglio una lettera anonima segnala alla questura di Nuoro che in un posto vicino a Orgosolo, Lenardeddu, c'è la prigione con l'ostaggio. Quando carabinieri e polizia arrivano, di Crasta trovano solamente il cadavere. Scattano gli arresti. In prigione, accusati del rapimento, finiscono tre dei fratelli Mesina: Giovanni, Pietro e Nicola, insieme ad alcuni vicini di pascolo.
Tentato omicidio
Graziano, finito di scontare la pena per lo sparo al lampione, viene scarcerato nel gennaio del 1961. Ma torna in cella nel dicembre successivo, con l'accusa di tentato omicidio. I carabinieri e il sostituito procuratore di Nuoro lo accusano di aver sparato, la sera del 24 dicembre, in un bar di Orgosolo, contro Luigi Mereu, uno degli indagati per il sequestro-omicidio di Crasta. Viene rinchiuso nel carcere di Badu ‘e Carros, dal quale riesce ancora una volta a scappare. E' la sera del 6 settembre 1962. Mesina è riuscito a farsi ricoverare in ospedale. Ecco il suo racconto: «Venne una suora a farmi una puntura. Scivolai dal letto. Sistemai il cuscino al centro in modo che fosse scambiato per la sagoma di una persona coricata e stesi sopra il lenzuolo. Mi nascosi sotto il letto. I carabinieri che mi sorvegliavano erano preoccupati. "Stai ancora male". "Sì, un po'. Ma non vi preoccupate", rispondevo io da sotto il letto. Dopo un po' fingevo di dormire e di russare. Scivolai sul pavimento. Andai alla finestra che avevo lasciato socchiusa. Una mia amica infermiera che mi aiutava mi aveva procurato un paio di scarpe. Il pigiama era bianco, a righe, larghissimo, mi faceva assomigliare ad un frate. Scavalcai il davanzale. Mi afferrai al tubo dell'acqua e incominciai a scendere. Un medico si affacciò a una finestra. "Dove vai?". "Me la sto filando". Telefonò alle guardie. Ma io avevo già scavalcato il muro di cinta dell'ospedale». Quella notte stessa, Mesina raggiunge il Supramonte di Orgosolo.
Intorno al sequestro omicidio di Crasta ad Orgosolo si era accesa una vera e propria faida: regolamento di conti legato alla gestione del sequestro e ad accuse mai dimostrate di «collaborazionismo» con i carabinieri e con la polizia. Massacrato dalle fucilate, cade, nell'ottobre del 1962, anche uno dei fratelli di Graziano, Giovanni. Scatta spietato il codice della vendetta. «Volevo scoprire chi era stato», racconta Mesina, «non volevo farmi annientare a mia volta. C'entravano, oltre al dolore e alla rabbia, il mio carattere focoso e la giovane età. Nella mia vita non ho mai saputo aspettare. Entrai in un bar di Orgosolo. Cercavo una persona, un uomo che è ancora vivo. Trovai invece Andrea Muscau. Era fratello di Giuseppe "Grusotto" Muscau, uno di quelli coinvolti nelle indagini per il rapimento Crasta. Ero incappucciato. Sparai col mitra. Era il 13 novembre del 1962. E' stata l'unica volta nella mia vita che ho ucciso una persona».
Alcuni avventori sorprendono Mesina alle spalle e lo stordiscono con un colpo di bottiglia. Graziano torna in galera, viene condannato a ventisei anni. L'omicidio e l'arresto vanno sulle prime pagine dei giornali sardi e finiscono anche nelle cronache dei quotidiani nazionali. E' l'inizio di una storia che porterà Mesina a diventare una sorta di icona del banditismo sardo, la personificazione del balente, impasto di protervia e di coraggio, di crudeltà e di lealtà, di calcolo egoistico e di altruismo che non attende compensi.
Pastorizia e modernizzazione
La Sardegna di quegli anni è una terra povera. L'attività prevalente è la pastorizia. Una pastorizia transumante, perno economico di un ordine sociale che affonda le sue radici nella storia millenaria delle zone interne dell'isola. Ma la Sardegna è anche, in quegli anni, il laboratorio di una modernizzazione dall'alto che nel giro di un paio di decenni segnerà il passaggio dalle strutture arcaiche della società agropastorale a un ordine ibrido, dove la tradizione si mescolerà e si adatterà al capitalismo delle imprese di stato e al capitalismo di rapina che dello stato di serve come serbatoio di liquidità finanziaria per impiantare in Sardegna il grosso della nascente industria petrolchimica italiana. Sono gli anni in cui in Sardegna sbarca Nino Rovelli; gli anni in cui parte un «piano di rinascita» che drena ingenti finanziamenti pubblici nazionali e ne affida la gestione a un ceto politico locale conservatore. Fortissima l'egemonia democristiana, sopratutto nelle zone rurali dell'isola. Risultato: crescita del reddito, accompagnata da una sostanziale conservazione di assetti sociali tradizionali. La Sardegna diventa più ricca, ha più scuole, più ospedali, più strade. Ma il vecchio mondo agropastorale non scompare, si adatta, in un intreccio spesso perverso tra modernità a tradizione.
Da una galera all'altra
E' perciò che Mesina è davvero l'ultimo dei balenti. Alla prigione, comunque, lui non si rassegna. Nel gennaio del 1963 tenta di evadere dal carcere di Nuoro, ma non ce la fa e viene trasferito prima ad Alghero e poi a Porto Azzurro. Per tre anni passa da una galera all'altra. Ogni volta tenta di tagliare la corda e ogni volta viene trasferito in un penitenziario diverso. Nel 1966 approda a Sassari. In cella conosce un giovane spagnolo Miguel Atienza, disertore della Legione straniera, e con lui riesce a evadere ancora una volta. Scalano il muro del carcere, che sta in pieno centro. Si gettano sotto, sul marciapiede tra la gente che passa e scappano a bordo di un taxi. Con Atienza comincia per Mesina la «carriera» di sequestratore. Mettono insieme una loro banda e nel dicembre del 1966 rapiscono un proprietario terriero, Paolo Mossa. E' il primo di una serie che lo porterà a diventare prima capo indiscusso dell'Anomina sequestri e poi all'ergastolo.
Ma per provare capire chi è stato davvero Graziano Mesina è meglio tornare all'autobiografia: «Quello che le autorità non capivano, era che uno stato democratico deve usare mezzi democratici. I problemi della Sardegna andavano risolti rispettando la cultura, il modo di essere, la gente. Gente che viveva allo stato brado. Siccità che portava all'esasperazione. Anni di sacrifici ridotti in un mucchio di cenere. In mezzo c'eravamo noi, i ricercati, i banditi. Alcuni volevano servirsi di noi per creare un fronte più ampio. Far scoppiare il caos. Passare alle armi. S'è scritto dei miei incontri con l'editore Gian Giacomo Feltrinelli. Non lo vidi mai. E vero che mi arrivò un messaggio che voleva vedermi. Venne in Sardegna. Diceva che i sardi non sapevano fa valere le loro ragioni. Ebbi invece incontri con altri personaggi, anche stranieri. Avevano bisogno della mia collaborazione. All'inizio del 1968 il colonnello Massimo Pugliese, del Sifar, chiese di incontrarmi: gli risultava che armi sarebbero state sbarcate in Sardegna per favorire il separatismo. Posi le mie condizioni: un registratore io e uno lui. Tanto per evitare equivoci».
Così era Graziano Mesina, un balente senza più codici, un balente a cui avevano sottratto ogni serio punto di riferimento. Alla fine restava solo il codice dell'Anonima, le sue leggi semplici e spietate.
“il manifesto”, 25 novembre 2004
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