Nella luce incerta di quella sera in Florida, il vigilante
George Zimmerman non ha visto una persona, un ragazzo di nome Trayvon Martin –
ha visto qualcosa che il nostro vicepresidente del Senato chiamerebbe “un
orango”. E naturalmente ha avuto paura, e poiché poteva farlo ha sparato. Ed è
stato assolto. Gli Stati Uniti si sono dati un presidente afroamericano,
l’Italia si è data una ministra nata in Congo; ma questi sono segnali di
progresso, più che indicare un’uscita dal razzismo del senso comune.
Come hanno efficacemente segnalato i manifestanti di Time
Square, a colori invertiti – vittima bianca, sparatore nero – il procedimento e
la sentenza sarebbero stati ben altri. Ha detto Barack Obama: siamo uno stato
di diritto, la sentenza è questa, cerchiamo di capire adesso che cosa fare.
Ma è proprio qui il punto: che “diritto” è quello che
permette un’assoluzione del genere? La legge della Florida riconosce la
legittima difesa anche a chi abbia agito solo per la percezione del pericolo,
indipendentemente dal fatto che questo pericolo fosse o meno reale. E non c’è
dubbio che un ragazzo nero in un quartiere bianco nell’ora sbagliata è
automaticamente percepito, almeno in certi contesti, come una minaccia: una
materia fuori luogo, un’invasione (ricordiamo Henry Louis Gates Jr., luminare
afroamericano di Harvard, arrestato perché di sera un poliziotto lo ha visto
che cercava di aprire la porta della propria abitazione?).
Ora, questa idea del rischio percepito, come stato mentale
soggettivo che produce conseguenze materiali sociali, la conosciamo bene anche
noi: è stata alla base di tutte le politiche securitarie che hanno cercato di
fondare le politiche statuali sulla paura dell’altro (del migrante, dello “zingaro”,
del “clandestino”, dello straniero). Questa paura non solo percepita, ma
attivamente alimentata, ha generato da noi il fenomeno, per fortuna molto
marginale ed effimero, delle ronde leghiste e paraleghiste; e anche George
Zimmerman, non un poliziotto ma un volontario che si era nominato vigilante da
sé, è espressione di questo impulso a “fare da sé”, a prendere in mano la legge
e la sicurezza – a mettersi, con consenso della legge, fuori della logica dello
stato di diritto.
Su questa paura permanente, fra l’altro, si fonda anche
l’altro fattore nella morte di Trayvon Martin: l’ossessione delle armi. Nella
maggior parte degli Stati Uniti, l’unico elemento di moderazione sul possesso
delle armi è la norma che autorizza a portarle purché siano visibili; la
Florida è uno di quegli stati che invece autorizzano il possesso di armi anche
nascoste. Bisogna armarsi, dice la National Rifle Association, perché solo così
ci si può difendere dagli aggressori armati che stanno dappertutto: una
mentalità da assedio che si traduce, dopo l’11 settembre, in quell’ossessione
del terrorismo che salda le paure private alle paranoie pubbliche.
Ma nel caso di Trayvon Martin, il fatto che la pistola del
suo uccisore non fosse visibile ha fatto sì che l’arma non avesse neppure una
funzione deterrente, ma solo una funzione omicida. Disse Barak Obama, subito
dopo l’assassinio: se avessi un figlio maschio, Trayvon Martin avrebbe potuto
essere mio figlio. Non era una trovata retorica: sta a dire che la sorte di
Trayvor Martin può essere la sorte di qualunque ragazzo nero, che ogni ragazzo
nero costruisce i suoi percorsi nello spazio urbano città tenendo presente il
pericolo che corre. “In queste strade”, dice la madre afroamericana al figlio,
in una canzone di Bruce Springsteen, “devi capire le regole; se ti ferma un
poliziotto promettimi che ti comporterai educatamente e non cercherai di
correre via e terrai sempre le mani bene in vista”.
Le mani di Trayvon Martin erano bene in vista, l’arma del
suo assassino nascosta. Amadou Diallo, ammazzato dalla polizia con 41 colpi,
aveva in mano un portafogli che i poliziotti hanno deciso di scambiare per
un’arma. Trayvon Martin non aveva in mano neanche quello. E’ segno che nemmeno
rispettare le regole ti protegge, che il pericolo te lo porti addosso
direttamente nella tua nera “American skin”. Che non ti uccidono per quello che
fai, ma per quello che sei. E la legge li assolve.
il manifesto 16 luglio 2013
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