Nell’agosto del 1988 “il
manifesto” dedicò la pagina di letture per le vacanze alla rievocazione di
grandi casi giudiziari del passato sotto il titolo Processo ai processi. Non so se la cosa fosse studiata, ma proprio
in quell’agosto altre pagine del giornale erano riempite da articoli e
interventi su una vicenda di cronaca nera che lasciava prevedere lunghi e
controversi dibattimenti processuali (cosa che puntualmente avvenne): la
confessione del pentito Marino e il conseguente arresto di Adriano Sofri per l’uccisione del
commissario Calabresi. Esattamente 25 anni fa, il 19 agosto 1988, tema della
rievocazione fu il processo per la monaca di Monza e ne fu autrice Rossana
Rossanda. Riprendo quella pagina e ne consiglio la lettura. (S.L.L.)
Il contenuto scabroso (amori e
quattro assassini in un convento di clausura) e la segretezza degli atti
(tribunale ecclesiastico di Milano) hanno fatto sì che del processo della
monaca di Monza si sia golosamente parlato e scritto dal 1607, quando avvenne,
ai giorni nostri. Nessun altro processo, a mia conoscenza, ha ugualmente tolto
il sonno a storici, giuristi, avvocati e psicologi e ha avuto la clamorosa
sorte di rivivere nel Manzoni, fervorosamente imitato in romanzi, romanzacci,
teatro e film.
Quasi ad acuire questa non sempre
scientifica curiosità, in passato la Curia di Milano a qualcuno e per breve tempo
rese accessibile il manoscritto: qualcosa ne seppe il Ripamonti, che pochi anni
dopo le condanne insegnava a Monza e partecipò a quella che doveva essere ancora
la conversazione prediletta in città; per alcune settimane ebbe gli atti tra le
mani il Dandolo, per breve tempo il Manzoni, che lo rielaborò a lungo nella
coscienza turbata; qualche decennio fa infine il Mazzucchelli lo trascrisse
tutto anche se non proprio fedelmente, ottenendo uno straordinario successo di
vendite. E da due o tre anni, con il permesso, penso, di Carlo Maria Martini,
gli Atti sono stati pubblicati dal Centro di studi manzoniani, nell'unica
edizione filologica, in italiano e latino, con i documenti annessi ai dieci
fascicoli nei quali furono raccolti e una serie di studi, di ispirazione
cattolica e di spesso notevole spessore.
LA SCENA
Il processo e la leggenda
Che dicono gli Atti che già non sapessimo? Qual'è la
differenza fra il processo, la storia come andò e la trisecolare quasi
leggenda? Sapevamo che alla fine del 1500 la giovane figlia di Martino de
Leyva, dignitario della dominazione spagnola sul ducato di Milano, Marianna de
Leyva, nacque in Palazzo Marino, appena edificato e dove il suo fantasma forse
ascolta stupefatto il Consiglio Comunale, ivi collocato. Perduta la madre e
l'avarissimo padre essendo dedito alle arti della guerra la piccola finisce a
undici anni in convento e a tredici prende il velo.
Sulla sua mancata vocazione gli Atti nulla dicono, né altri documenti, ella
viveva ancora quando il Ripamonti la evocò, dando anche notizia di una sua
improbabile furiosa resistenza all'arresto col ricordare che era stata monacata
per forza. Questo si può solo supporre, e Manzoni ce ne ha persuaso per sempre,
scrivendo di quella violenza esercitata sull'animo dell'adolescente con
un'aderenza tormentosa, per cui Gertrude si sovrappone sempre, in noi, a Maria
Virginia con l'impatto del personaggio lungamente costruito, amato e detestato,
rispetto alla povertà delle parole coatte di un processo.
Ma negli Atti non si parla né di vocazioni mancate né di vocazioni accese,
non si parla di religione affatto come nessuno degli inquirenti interroga da
religioso. I giudici, sobri e probabilmente preoccupati, non rampognano e non
esortano, le formule del diritto canonico e il rimando alla pietà del signore
sono stereotipi, conta la ricerca dei fatti e contano le procedure. Quel che si
disegna nei costituti, le deposizioni, è un luogo di donne sottoposto a una
regola e minacciato dalla devianza, che, in tempi e persone poco inclini alle avventure
ereticali dello spirito, è la devianza dei sensi, la sottrazione a questo solo
aspetto della clausura.
Per il resto, dal Ripamonti al
Mazzucchelli — tre secoli di rimbrotti — c'è poco da prendersela con le
abitudini di Virginia Maria: la sua giornata passa come quella di tutte tra
mille faccenduole che con Dio nulla hanno a che vedere — far fiori di seta,
squisiti dolci, collaretti di pizzo per i nobili amici, mormorare di magie, far
girare segretamente oggetti magici, fare mattutino se ci si sente di alzarsi e
i vespri, idem. Si preparano manicaretti che si consumano o assieme, in basso,
o in camera, ci si confessa quando si vuole, si stringono amicizie fra donne e
inimicizie fra donne, nonché con chi viene in visita alla grata e tutta una
rete di serventi, giardinieri, fattori, speziali, domestiche, cupidi e impauriti
non dalla divina maestà ma dal terrestre potere dei conventi.
IL FATTO
La sventurata non rispose
Sappiamo dagli archivi storici
che Marianna de Leyva, in religione suor Maria Virginia, fin da ragazzina undicenne
esercita i diritti feudali che le vengono dall'essere unica figlia di Martino,
e assieme i suoi doveri prima e dopo aver preso a tredici anni il velo, con
regolarità e quiete. Del suo carattere inquieto e rissoso nulla o quasi risulta
dagli Atti, perché i costituti delle
terrificate priora e vicaria devono scaricare su una sua arroganza il loro
lassismo, mentre meno implicate sorelle diranno che tutti le volevano bene.
Vero, falso? Quel che è certo, da
una lettera mandata a un prete mezzano che la minaccia, è che suor Maria
Virginia non dimentica di essere Marianna de Leyva e con gli inferiori parla
non da monaca ma da signora offesa. Persino in tribunale dirà con naturalezza
«una par mio». E in convento era servita e si voleva piacerle come, appunto,
alla Signora, secondo il costume del tempo, per nulla temperato da ardori
mistici o trasporti di pietà.
Dai tredici ai ventitre anni Suor
Maria Virginia è come le altre. Poi, un giorno, mentre è in giardino con le
educande vede che nel palazzo attiguo un giovane fa segno a una di loro, e la
sgrida aspramente. Il giovane fa allora segno a lei che se ne offende. Gli Atti sono concordi: la sventurata non
rispose, la bellissima ellisse con la quale Manzoni censura se stesso e Fermo e Lucia. Fra lei e Giampaolo Osio
stanno due consorelle, suor Ottavia e suor Benedetta, e un prete, Paolo
Arrigone, che (non è lei ad accusare le due donne) la portano quasi per mano
all'Osio, appena si avvedono che lei, con grande dolcezza, dice a una di loro
scorgendolo dall'alto: «Ditemi, si potria mai veder più bella cosa?». Il prete
negherà tutto, le due suore no, ma non saranno interrogate su di sé. Interessa
al giudice poter provatamente incriminare suor Maria Virginia, chi l'ha aiutata
sarà ipso facto punito come lei. Il
processo per primo compie quella centralizzazione della figura di lei, che nel
Manzoni è l'unica, nella debolezza, nella colpa, nella pietà.
Negli Atti perfino l'amante e complice, materiale esecutore degli
assassini, non si vede, perché è un laico e sarà il Senato di Milano a occuparsene.
Allegata c'è solo una sua lettera all'arcivescovo di Milano, due giorni prima
del primo interrogatorio di Virginia, quando si delinea la loro rovina, nella
quale «lo scellerato» appare, a nove anni dall'incontro con «la povera signora
Maria Virginia» disperatamente innamorato di lei e impegnato follemente a
difenderla, addossando le responsabilità delle di lei cadute a «quelle due
bestie» di suor Benedetta e suor Ottavia, donne più di lei consapevoli delle
«cose del mondo», maliziose e mezzane. Che l'Osio ha cercato, diciamo così,
mollemente di liquidare, ammazzandole a metà quando esigono di fuggire con lui,
e facendone quindi i più spietati testimoni d'accusa.
Di lui non sappiamo direttamente
altro, al processo laico non essendosi presentato, suppongo per sfuggire la
prevedibile condanna: attanagliamento con ferri roventi, amputazione della mano
destra, impiccagione e squartamento dei resti da esporre in vari crocicchi
della città, casa demolita. Sarà ricercato ancora nel 1609, quando Virginia è
già murata viva alle Convertite, e un giorno riparerà segretamente presso
l'amico più fidato, il conte Ludovico Taverna. Il quale lo accoglie e lo fa
decapitare in cantina dai suoi sgherri, e il capo mozzo sarà gettato per strada
ai piedi del governatore di Milano, Fuentes. Fosco destino davvero, che finora
non ha trovato una penna pietosa. Dei moti dell'animo dello «scellerato» Egidio
il Manzoni non s'impiccia, e le fonti storiche tanto meno.
Né sappiamo se e quando suor
Virginia Maria apprende la morte d'un uomo col quale ha diviso nove anni di
vita e, di fatto, il destino. Un rapporto coniugale, che la storia ha
trasformato nel cedimento a una tentazione: lungo cedimento, nove anni. E due
figli, il primo partorito morto, in cella, soffocando gli urli; corpicino
affidato all'Osio affinché lo ponesse in luogo «dove non lo mangiassero i cani»,
sole e disperate parole di suor Virginia Maria, e più tardi una bimbetta viva,
che l'Osio solennemente legittimerà. E la porterà alla Signora l'indomani del
parto, lavata, togliendole le fasce perché la madre la veda tutta («Non
sfasciatela, che non me l'aveste a storpiare»). Poi altre volte Virginia la
vedrà, le farà gli indumenti, la prenderà in braccio con discrezione ma
sussurrando: «Siete la mia donnina, non siete la mia donnina», «attristandosi
perchè era brutta», testimonia una giovane.
L'IMPUTATA
Presente e travolta
Ma che può dire suor Maria
Virginia di sé, di lui, di questo strano matrimonio nel quale è stata amata tanto?
Per anni l'Osio è salito e sceso dai muri, scivolato per camini, s'è
arrampicato per tetti, introdotto con un velo da monaca e chiavi contraffatte
che sovente lei butta nel pozzo, amante ma terrificata. Per difendere lei
l'Osio ha ucciso, se è stato lui, una conversa che indispettita voleva parlare,
ma nessuno dice che è stata Virginia a volerlo, fra i testimoni e complici. Lei
come sempre è presente e travolta, prima di tutto da se stessa. Quando sarà
interrogata dall'inquirente, a Milano, parlerà d'un malefizio, una calamita
stregata che lui le dette da baciare e sfiorare con la lingua, come lui aveva
fatto — il primo bacio fra i due per interposto oggetto — perchè altrimenti non
sa spiegare la passione che l'ha dominata e contro la quale non sono valse
novene, preghiere, argenti mandati a Loreto, separazioni.
Di questa battaglia per toglierselo
dal cuore e dai sensi gli Atti testimoniano:
la Signora si serra in camera per mesi, malata, infelicissima, sanguinante di
parti o determinata a finire. Marianna de Leyva, quando parla con la sua voce —
due volte in tutto — somiglia più alla Gertrude bambina, come Manzoni l'ha dipinta,
che alla Gertrude adulta, forte nel «vizio», provocatoria nell'abito — il
ricciolo che le sfugge dal soggolo, prova della capigliatura non recisa, il
biancore del collo che traluce dalla «honesta» non ben serrata, la forma del
seno disegnata dall'abito troppo stretto. Ma questa figura seduttiva è
l'erotismo del Manzoni a crearla, il suo occhio avido e colpevole. Si
censurerà. Ma anche quando in Gertrude vede lo scontro fra società e volontà
individuale, passione e ragione, comprendendo ma non potendo assolverla e assolversi,
Marianna de Leyva è sfocata.
Qualcosa sempre la trascina ma è
docile, come nell'interrogatorio e nella pena e nel ritorno al mondo. Non ha
fulgori né di intelligenza né di passione. O forse non ha avuto parole per
essi, e come le avrebbe? Nel processo certo no. Le donne non vi hanno mai
parola propria perché non hanno mai fatto la legge. Né in quell'inchiesta
spinte e affetti hanno altra veste che quella del peccato, vizio o colpa. Se
parlasse, chi la ascolterebbe? Neanche con se stessa forse parlava. Meno ancora
avrebbero parola le motivazione, sensuali e/o affettive delle due, tre
complici, che vivevano accanto ai due — che si amarono sempre, fino all'ultima
notte, quando l'Osio ricercato ha ormai commesso il penultimo errore, s'è
rifugiato in convento.
L'INCHIESTA
Pentite senza premio
Gli Atti del processo, se appena riordinati nella cronologia, mostrano
che l'inquirente è preso di sorpresa, da una faccenda le cui dimensioni col
processo precipitano. Non c'è compiacimento persecutorio. Da quando in
convento, non potendo reggere un'infinita convivenza con l'Osio, denunciano
quel che sapevano — e tramite i famigli sapeva certo tutta Monza, e a leggere
la sfilza della nobiltà milanesi, i conti palatini che sottoscrivono la
legalizzazione della figlia di Marianna e Giampaolo (sia pur sotto nome
fittizio della madre ), sapeva anche tutta Milano — e cioè la tresca, le cose
rapidamente cambiano. Il cardinale Federigo Borromeo sarà stato contento di prendersi
una vendetta sulla intollerabile nobiltà spagnola, ora potere secolare, ma
quando finalmente manda a «levare» Virginia da Monza, l'ultima domenica di novembre,
pensa semplicemente a una grave violazione della disciplina claustrale.
Senonché è appena aperta l'inchiesta
che suor Benedetta e suor Ottavia, terrorizzate, vogliono fuggire e chiamano
l'Osio. Il quale, più temendo per “la povera signora Virginia Maria» che per sé,
non si nega. Segue una notte di cammino senza meta, dove forse si azzuffano si
ricattano, e a un certo punto suor Ottavia cade o è gettata nel Lambro, non
riesce o non la fanno risalire, forse è colpita dalla canna del fucile
dell'Osto, finisce fradicia e ferita contro una chiusa, dove la troveranno i contadini.
Altri cittadini porteranno al magistrato suor Benedetta, che gridava dal fondo
di un pozzone.
L ' Osio non ha osato né portarle
in salvo fuori del ducato né finirle. Sono imputate come Virginia ma anche
testi d'accusa, le «pentite» dei giorni nostri, senza premio. Il magistrato fa
certo più riscontri che non ne cerchino certi magistrati ora, e così si trova
tra le mani una storia che precipita al peggio, quando dallo stesso pozzone
esce una testa semiputrefatta, e prima che i medici possano riconoscerla, suor
Ottavia parla. E' la più malandata, morrà di ferite e forse delle sorprendenti
terapie che le applicano, dopo essere stata interrogata nove volte. Come
nessun'altra. Parla e denuncia via via che, nell'assai permeabile isolamento
della cella del convento, le giunge notizia dei reperti che arrivano sul tavolo
del magistrato, che di colpo si trova davanti un omicidio e due tentati
omicidi.
Da quel momento il giudice fa quel
che onestamente può per circoscrive l'indagine. Si guarda bene dall'incriminare
priora e vicaria e tutti coloro che hanno tenuto mano alla relazione di suor
Virginia Maria. Gli Atti rivelano
l'attenzione a non compromettere tutto il convento in una città di conventi,
ben settantasei per cinquemila abitanti, e probabilmente dai costumi non troppo
diversi.
LA SENTENZA
Una porta fatta muro
Come persegue con particolare tenacia
il prete mezzano, non solo perchè questi nega con determinazione, ma perché
appare figura più importante d'una monaca, per nobile che sia, e si vorrebbe
scagionarlo. E' condannato a una ben mite pena, anche tenendo conto che non ha
posto mano nell'assassinio della conversa: tre anni di remi alla galera e
l'allontanamento da Monza — se no perderà gli ordini.
Sulle monache la mano è assai più
pesante: saranno murate vive, prima suor Virginia Maria de Leyva, poi suor
Benedetta Homati, suor Candida Colomba Trotti Brancolini, suor Silvia Casati,
in cubicoli di cinque braccia per tre, con un pertugio per ricevere cibi e
luce. Porta fatta muro in pietre e calcestruzzo, resteranno a vita, pregando,
senza sentirsi rivolgere parola, al calore e al gelo, nei loro escrementi e nel
loro sangue.
Virginia Maria ne uscirà tredici
anni dopo. Ne ha 45, è sfinita, non sa stare in piedi, non regge la luce, è avvezza
al puzzo e lo cerca. Le diranno che il cardinal Federico ha una pia
inclinazione per le donne che dall'abisso dei sensi sono risalite alla virtù,
inclinazione che oggi vediamo con occhi meno compunti d'un tempo. Dopo un primo
incontro nel quale il vescovo la umilia duramente, il rapporto con la convertita
sarà cosi intenso che Federico Borromeo mediterà di scriverne la vita, a
edificazione dei credenti. In questo ruolo, come sempre docilmente, suor Virginia
Maria si riabitua a vivere e a scrivere, lettere nelle quali una sola volta traspare
un sentimento: la sorpresa di non essere morta in quei tredici anni. Si
spegnerà trent'anni dopo, nel 1650. Al giudice che la interrogava nel dicembre
1607 aveva detto: «Io havrò 32 anni» e prima che finissero, era già murata.
Gli Atti del processo sono
pubblicati in Vita e processo di suor
Virginia Maria de Leyva, signora di Monza,Garzanti 1985.1 saggi che li
accompagnano, fra i quali molto bello quello di Anna Maria Tonucci, portano una
bibliografa esaustiva, cui si rimanda. Va forse aggiunto un libretto che
Adriano Sofri, oggi detenuto per via d'un pentito, scrisse sui rapporti tra
Federico Borromeo e Caterina Vannini: R. Barzanti, A. Sofri, Dialoghi di una convertita, vita e lettere
della venerabile Caterina Vannini senese, Siena 1986.
"il manifesto", 19 agosto 1988
1 commento:
Grazie per aver pubblicato questa bella testimonianza della Rossanda! Il suo è tra i pochi post accurati sul processo in questione. Un saluto e riprenda il blog!
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