Da Il secolo morente, il libro che riprende ed amplia la mia lezione
all’aperto (nel chiostro del Convento di Sant’Anna a Perugia) di addio
all’insegnamento, “posto” una paginetta dalla terza parte, ove affronto una
“questione” che quasi cent’anni fa ebbe qualche peso nel dibattito letterario:
i rapporti tra la Pasqua a New York di
Blaise Cendrars e Zona di Guillaume
Apollinaire, i due testi da cui per convenzione si fa iniziare in Francia il
Novecento poetico. (S.L.L.)
1.
La Pasqua a New York di Cendrars, composta e pubblicata nel 1912, fu
oggetto di un’infuocata polemica. Allo stesso anno risale, infatti, la prima
stesura di Zona, la poesia di
Apollinaire che, nella sua forma definitiva, fece da apertura ad Alcools, nel gennaio del 1914.
Le somiglianze autorizzavano i
sospetti di plagio. Gli autori, tra loro amici, tacquero: ritenevano la questione priva
d’interesse. I contatti tra i due testi, i primi dell’“esprit nouveau”, rivelano in realtà il cameratismo di una battaglia
combattuta insieme. Si può ragionevolmente ipotizzare che quel che appare
plagio sia citazione, se non comune invenzione.
La Pasqua ha un metro tradizionale. Con l’eccezione di una sola
quartina, è formata da distici. I versi, di varie misure, come l’alessandrino
si compongono di due parti e la divisione è evidenziata dalla presenza regolare
di rime o assonanze. Zona, nella sua forma definitiva, ha strofe disuguali di
versi disuguali e le rime, pur numerosissime, non rispettano alcuna regola.
A legare i due testi è innanzitutto il problema religioso.
Cendrars racconta una vera e
propria crisi. Alla vigilia di Pasqua, in un tramonto newyorchese, l’Eterno
batte alla porta del poeta. Forse è quel Cristo che non ha mai pregato, ma ha
ammirato nei quadri e nelle icone. Lo cerca invano sulle rive dell’Oceano, ove
giungono, stivati come bestiame, gli emigranti, poi lo cerca nel quartiere dei ladri e in
quello delle prostitute, tra le botteghe del ghetto ebraico e in un localaccio
cinese.
Rientra a tarda sera,
febbricitante e vacillante, pieno di terrore per le inquietanti presenze delle
strade suburbane, ma non trova Dio neanche nella solitudine della sua stanzetta:
pensa alle campane, agl’inni e alle liturgie e non ne avverte neanche l’eco.
“Le gioie del Paradiso s’annegano nella polvere/ I fuochi mistici ormai non
rutilano nelle vetrate”, la città moderna ha altre sonorità, altre luci.
Riesce all’alba, mentre la folla
si riversa per le strade tra le sirene delle fabbriche e i rombi dei treni.
Quando nuovamente ritorna a casa, pensa soltanto ai suoi desideri
insoddisfatti, alle sue ore perdute. Nel giro di dodici ore, in una spoglia
stamberga di periferia, è passato il mondo intero e si è consumata la morte di
Dio.
La poesia, insieme a qualche
caduta, ha molti pregi. La rappresentazione degli emigranti, “bestie da circo
che saltano i meridiani”, delle periferie sudicie e abbandonate, del risveglio
metropolitano è forte e convincente per la tensione espressionistica che la
sorregge. Nella Pasqua la
simultaneità compare di rado: non capiremmo pertanto l’impressione di novità che
suscitò, se non ci soccorressero le riflessioni di Apollinaire. Per lui, lo
“spirito nuovo” non è, come per tanti futuristi, una questione di tecniche, ma uno speciale rapporto con la modernità. Il poeta di spirito nuovo non fugge da
essa, come spesso facevano maledetti, decadenti e simbolisti; piuttosto
l’affronta, la penetra e la maneggia. Costruisce così la surréalité, una soprarealtà che non nasconde il mondo, ma s’innalza
su di esso. Nella Pasqua accade.
Apollinaire, dal canto suo, fino
al dicembre del 1913 rimaneggiava Zona.
Era già stata pubblicata nel settembre la Prosa
del Transiberiano di Cendrars, che probabilmente gli ispirò una maggiore
consapevolezza teorica, guidandolo nelle ultime correzioni.
In Zona a lungo non s’intende donde provenga la voce recitante. Quasi
sempre si rivolge ad un “tu” che coincide con il poeta. Lo sballottola nello
spazio e nel tempo: “leggi i manifesti”, “non sei che un bimbetto”, “marci per Parigi”,
“sei nel giardino di un albergo nei dintorni di Praga”, “eccoti a Marsiglia”,
“a Roma”, “ad Amsterdam”, “a notte in un grande ristorante”.
Solo alla fine gli (ci) rivela
che sta camminando verso Auteil e che presto verrà il mattino.
Era detto zone l’anello stradale che circondava Parigi e, per estensione,
tutta la cintura tra la periferia urbana ed i paesi, in gran parte rurali, del
circondario. Il poeta ne percorreva ogni giorno un tratto, di solito a piedi,
al tempo della prima ideazione del poema, quando abitava ad Auteil. Lo spazio
della poesia è, pertanto, in una “terra di nessuno” tra l’antico e il moderno,
tra il passato e il futuro, tra la città e la campagna, tra il consapevole e
l’automatico, tra la memoria e la fantasia.
Per questa via la simultaneità è
condotta a un livello più avanzato che nello stesso Transiberiano e s’accosta alla tecnica del “flusso di coscienza”.
“Alla fine sei stanco di questo mondo antico”, “sei stanco di vivere
nell’antichità greca e romana”. Così si dice Apollinaire. Sono i cataloghi, i
pieghevoli e i manifesti murali la poesia dell’oggi. I quotidiani, con le loro
appendici di racconti polizieschi, ne costituiscono la prosa. Il problema
religioso è pertanto affrontato in termini meno drammatici che nella Pasqua. Il papa è l’unico moderno in
un’Europa così fortemente segnata dall’antichità classica e la sua fede,
semplice “come i capannoni dell’aeroporto”, è l’unica all’altezza della
modernità. A ragione pregano il suo Dio gli emigranti che impregnano del loro
odore le stazioni parigine e sperano di tornare al paese dopo aver fatto
fortuna in Argentina.
In Apollinaire il Cristo che
ascende al cielo è un aeroplano, volteggia nell’ostia che i preti sollevano.
Non può morire, continua anzi a risorgere nel moderno e a prosperare del
moderno. A noi che viviamo alla fine del millennio rammenta papa Wojtila, i suoi
voli, i suoi atterraggi tra folle osannanti e genuflessioni di potenti, le sue
apparizioni televisive.
2.
Verso la conclusione Zona
recita: “…vuoi rincasare a piedi/ Dormire tra i tuoi feticci d’Oceania e di
Guinea/ Sono Cristi di un’altra forma e di un’altra credenza/ Sono i Cristi
inferiori dalle oscure speranze”. Quest’ultimo verso, più che ad una sorta di
sincretismo religioso, rimanda agli esperimenti delle avanguardie. Pittori e
scultori presto daranno al Crocifisso forme “primitive”, con scandalo di
parroci e fedeli tradizionalisti. Qualche decennio più tardi, dopo il Concilio Vaticano II, toccherà ai
preti missionari di incoraggiare i “selvaggi” convertiti, anche quelli che,
avendo scelto l’assimilazione, forse non ne avevano più voglia, a
rappresentare i miti cristiani secondo gli schemi della loro arte nativa.
Anche nella Pasqua c’è un brano
che si colloca un passo più avanti, rispetto al Transiberiano, sulla via della
cosiddetta “interculturalità”. Nella saletta da tè dei cinesi, tra cromi
incorniciati di bambù, il poeta domanda al Signore: “Che sarebbe il tuo Volto
dipinto da un cinese?”. In questa “contaminazione” il moderno incontra il
barbarico con esiti espressionistici: lame ritorte segano le carni del Cristo,
pettini metallici striano le nervature. Cendrars conosce la raffinata
iconografia cinese (“Ho-Kusai ha dipinto cento aspetti di un monte”), ma la sua
immaginazione di europeo la mutila, la riduce al ruolo di una forza
primordiale, la cui unica funzione è di riattizzare fuochi mistici ormai
spenti.
Da Il secolo morente, ovvero la fine delle lezioni, Giada, 2001
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