Un brivido per Dorian Gray
Non voglio, né posso tentare una
sia pur breve storia della fortuna di Wilde in Italia, che nel suo primo tempo
avrà pur toccato D'Annunzio e Gozzano. Quest'ultimo in versi memorabili parla
di Arturo e Federico; ma certo anche Oscar dev'essere entrato nella
bibliotechina scelta e un po' nevrotica del suo Totò Merumeni.
L'Universale Sonzogno, coi suoi piccoli
volumi a buon mercato, infilabili, senza gonfiarlo troppo, nel possente Georges
dal latino in italiano, offrì subito, o quasi, ai giovani di casa nostra
innamorati di carte e di stampe al limiti del proibito, versioni non so quanto
precise ed eleganti di Wilde. (Comunque un evviva a quei traduttori intrepidi,
probabilmente pagati malissimo: uno, Valsecchi, che rese niente male per il
benemerito editore milanese l'impalpabile musica di Verlaine, finì suicida in
una roggia lombarda).
Ricordo La casa dei melograni, Il
ventaglio di Lady Windermere e il De
Profundis con giunta di Ballata
del Carcere di Reading.
Che ancora, dico il De Profundis, sfamava i liceali fra il
dopoguerra smorente e il fascismo torpidamente «triumphans». Veniva avanti
l'abominevole onda di riflusso, con richiamo all'ordine estetico e morale,
dubbia vittoria del soffocante novecentismo figurativo e contemporaneo
diffondersi del cosiddetto basso crocianesimo, nemico morigerato di tutti gli
ismi, ma soprattutto dell'estetismo e del decadentismo, apportatori di peste
nella sana, ben portante, florida Italia.
A un certo punto le donne
italiane non floride si meritarono il marchio infamante di donne-crisi. Ma non
era un archetipo di esse Salomé di Wilde-Beardsley? Bella forza: i due rinomati
omosessuali non potevano sopportare che androgini, efebi e simili.
Qui si va a finire nella storia
del costume, che non guasta trattandosi di un tale maestro di vita,
naturalmente « deprecabile e perciò giustamente condannato e morto in esilio ».
Verso il '30 Oscar Wilde era già, da noi, più che combattuto obliato.
L'intellighentsia che, se mai, si nutriva di Gide, lo avrà incontrato più che
altro, ridotto a personaggio pittoresco, nella limpida prosa del francese
rievocante avventure nordafricane... Ma chi leggeva ormai Il Ritratto di Dorian Gray, che in una vecchia edizione popolare
era stato mutato in Doriano Gray dipinto?»
Con forse un abile gioco di ambiguità voluto dall'editore, fra il giovane Gray
dipinto nel quadro e, perché no, nelle labbra, sulle guance, magari sulle
palpebre. Da cui brividi dell'allettato lettore.
A proposito. Quando Maria
Schneider, qualche anno fa, scandalizzò ed eccito gli italiani (più eccitati
che scandalizzati) recandosi a dormire all'ospedale psichiatrico di Santa Maria
della Pietà di Roma, con una ricoverata giovine inglese dalla vita di giunco,
il nostro Goffredo Parise scrisse un pezzo divertente sostenendo che la detta
inglese, come sesso, fosse da catalogarsi con Dorian Gray e altri eroi di tale
fatta. Fra i quali egli citava anche un Foster che io proprio non conosco, e
vorrei tanto che Parise mi indicasse il romanzo, o racconto in cui l'ha
incontrato, così che io possa arricchire il mio carente repertorio.
La raccolta di lettere di Oscar
Wilde che Masolino D'Amico ha curato qualche tempo fa per Einaudi, ci dice che
il vento sta cambiando. Non penso che il fatto sia attribuibile soltanto alla
voga del liberty, stile del resto bellissimo, degno nei suoi capricci migliori
del gotico più fiammeggiante, del manierismo, per dirla con Longhi alludente alla
loro mirabile calligrafia, più cancellieresco.
Wilde è un eroe (ha pagato di
persona) di quel decadentismo che, si voglia o no, è uno dei momenti liberatori
della cultura europea, e per questo lo condannarono i tiranni del nostro secolo,
i piccoli, forse inconsapevoli maestri di scuola, anche assurti a compilatori
di storie della letteratura. Ma, specie nelle due scintillanti commedie, in
certi dialoghi di Intenzioni (miniera
di riflessioni di estetica e di illuminazioni critiche) Wilde raggiunge una
sorta di grazia che supera le cifre e le sigle del decandentismo e del liberty:
i vecchi, mai abbastanza rimpianti trattatisti l'avrebbero chiamata,
onorandola, attica.
Avete visto le sue fotografie. Per
quanto si industriasse con sarti egregi e garofani verdi all'occhiello, era
piuttosto brutto e goffo della persona. Ebbe il suo compenso nell'agilissima
niente, nella scrittura perfetta. E, ricordiamolo, anche in una grande umanità.
Si legga, nell'epistolario, la coraggiosa lettera alle autorità carcerarie
inglesi perché non si infierisse, come si faceva, e lui prigioniero era buon
testimone, sui bambini criminalizzati, sofferenti nelle celle umide mentre i
bei coetanei ruzzavano per i prati vittoriani con poney non meno di essi
lungocriniti, e palline e mazze da «criquet».
"la Repubblica", 27 agosto 1978
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