Luciano Canfora |
Questo scritto, a mio avviso
bellissimo, di Luciano Canfora sulle origini dei soviet risale ai primi mesi
del 1990. E, forse, vale la pena rammentare il contesto di quel momento.
Alla fine del 1989 c’era stata la
cosiddetta “caduta del muro” e l’esistenza dell’Unione delle Repubbliche Socialiste
Sovietiche veniva messa fortemente in discussione dalla pressione
indipendentistica di alcune nazionalità, autorizzata da quel “diritto alla
secessione” che Lenin aveva propugnato e Stalin aveva fatto inserire nella Costituzione
del 1935.
Gorbaciov, primo segretario del
Pcus e primo ministro dell’Urss in fase di smobilitazione, stava lavorando a
una soluzione “confederale” attraverso una rinegoziazione del patto tra le
nazionalità sovietiche. Era già pronto il nome della nuova struttura statuale:
abbandonato il riferimento al socialismo e ai soviet, si sarebbe chiamata CSI
(Confederazione di Stati Indipendenti).
La scommessa di Gorbaciov era la
“democrazia”, identificata nel meccanismo di delega elettorale
caratteristico degli Stati Uniti, cioè con una forte connotazione presidenzialista.
In questo contesto era stato eletto presidente della Repubblica Russa, fuori
dalle indicazioni del Pcus, ancora partito unico, l’ex leader del Partito di
Mosca, Boris Eltsin, alcuni anni prima allontanato dal potere con il consenso
di Gorbaciov, già suo “sponsor”, per le posizioni di “sinistra”. L’uomo aveva costruito
intorno a sé una sorta di comitato d’affari e si era riciclato su posizioni
nettamente filoamericane, anche sul piano economico-sociale. Cominciavano proprio
allora, con la sua regìa, gli esperimenti di “privatizzazione”, appropriazioni neanche coperte
dalla legislazione, preannuncio del saccheggio imminente dei beni collettivi.
Tutto ciò, nei primi mesi del
1990, era ancora allo stato embrionale. Vigeva in Russia la confusione
istituzionale e di potere: si contendevano gli spazi decisionali il Pcus, le
autorità governative dell’Unione, l’Armata rossa con alleato il
Komsomol (la Gioventù comunista), gli “eltsiniani” della Federazione Russa, i Municipi
di Mosca e di Leningrado (si chiamava ancora così). In questa sorta di
pluralismo anarcoide ci fu perfino qualche tentativo di rivitalizzazione dei
“soviet”, gli organismi rappresentativi dei lavoratori che erano stati
protagonisti della Rivoluzione del 1917 e conservavano alcuni poteri più
formali che sostanziali.
L’antichista Canfora passava
e continua a passare per “stalinista”. E non si vergogna dell’epiteto. Ma nell’articolo
rievoca senza complessi le stagioni dei soviet e in esse il ruolo fondamentale di Trotzkij. Aveva
già scritto che non solo riteneva necessaria l’evoluzione centralista del primo stato
operaio (così fa anche nell’articolo qui postato) e che Stalin (spesso paragonato a Ottaviano Augusto) l’aveva
condotta con coraggio, vigore, genio costruttivo, al punto che quel primo
grande stato sociale autoritario a egemonia operaia, sotto la sua guida, non
solo aveva resistito alla aggressione nazista, ma era divenuto una potenza
mondiale, un modello di sviluppo economico e civile. La
sua onestà di storico e di comunista, tuttavia, non può fargli accogliere come
veritiera la propaganda fontro la
figura di Trotzkij, “traditore da sempre”.
Canfora – alla luce di Gramsci - vede perfettamente alcune ombre nella gloria di Stalin, ma, nel suo “machiavellismo”, accetta una sostanziale riduzione di libertà e di verità, se la perdita è provvisoria e finalizzata. Come l'Isaac Deutscher, che qui cita, egli credette fino alla fine nella riformabilità del “sistema” costruito da Stalin. Non a caso, nell'articolo qui postato, Canfora esprime la speranza, presto rivelatasi infondata, di un ritorno al “soviettismo”.
Il carattere illusorio di questa speranza non toglie vigore alla rigorosa e appassionata rievocazione e non toglie valore pararadigmatico all’esempio sovietico, in tutte le sue fasi. La costruzione di una prospettiva nuova di rivoluzione egualitaria, dovrà estrarre tutte le possibili lezioni, positive e negative, dall’esperienza storica del comunismo leninista. (S.L.L.)
Canfora – alla luce di Gramsci - vede perfettamente alcune ombre nella gloria di Stalin, ma, nel suo “machiavellismo”, accetta una sostanziale riduzione di libertà e di verità, se la perdita è provvisoria e finalizzata. Come l'Isaac Deutscher, che qui cita, egli credette fino alla fine nella riformabilità del “sistema” costruito da Stalin. Non a caso, nell'articolo qui postato, Canfora esprime la speranza, presto rivelatasi infondata, di un ritorno al “soviettismo”.
Il carattere illusorio di questa speranza non toglie vigore alla rigorosa e appassionata rievocazione e non toglie valore pararadigmatico all’esempio sovietico, in tutte le sue fasi. La costruzione di una prospettiva nuova di rivoluzione egualitaria, dovrà estrarre tutte le possibili lezioni, positive e negative, dall’esperienza storica del comunismo leninista. (S.L.L.)
«La sera del 26 ottobre (1905) -
narra il giornalista e storico americano William Henry Chamberlin nella sua History of the Russian Revolution 1917/1921
- trenta o quaranta delegati (alcuni operai di Pietroburgo, altri rappresentanti
di partiti rivoluzionari) si riunirono nella sala dell'Istituto tecnologico di
Pietroburgo. Questa merita di essere ricordata come una data storica, poiché fu
la prima riunione del soviet (che in
russo significa semplicemente consiglio), il quale non solo ebbe la parte più
importante nel successivo svolgimento del moto del 1905, ma offrì la forma
politica che prevalse dopo la rivoluzione bolscevica del 1917».
Per la precisione si dovrebbe
dire che il primo soviet di cui si abbia notizia si era formato nella città di
Ivanovo-Voznesensk nel maggio del 1905, sorto come «comitato di sciopero», poi
alla testa del movimento rivoluzionario: ma - osserva Chamberlin - quella prima
embrionale struttura «non possedeva il prestigio di portata nazionale ed il significato
dell'organizzazione di Pietroburgo».
L'iniziativa del soviet di
Pietroburgo venne dal gruppo menscevico. Inizialmente Lenin guardò con
diffidenza alla nuova struttura, che veniva affermandosi e acquisiva prestigio:
«Non è - disse - né un parlamento di operai, né una organizzazione di
amministrazione operaia, bensì un'organizzazione di lotta volta al
conseguimento di fini delimitati». Solo più tardi, nel marzo del 1906, comprese
che si trattava di un'organizzazione concreta e immediata del potere operaio,
«malgrado - soggiunse - tutti gli elementi embrionali, disorganizzati e
dispersi coi quali i soviet si costituirono e funzionarono» (La vittoria dei «cadetti» e i problemi del
partito operaio).
Dopo una breve presidenza dell'avvocato
ebreo Khrustalev-Nozar (presto arrestato), la guida del soviet di Pietroburgo
nei mesi della rivoluzione del 1905 passò nelle mani di un altro rivoluzionario
di origine ebraica, Lev Davidovic Trockij, allora su posizioni ben lontane da
quelle dei bolscevichi. Il meccanismo di rappresentanza era in ragione di un
delegato ogni 500 lavoratori. Gli equilibri politici all'interno di questa struttura
spontanea - il cui prestigio si estendeva all'intero paese - erano assai
complessi; bolscevichi, menschevichi, social-rivoluzionari, operai senza partito:
questi ultimi erano numericamente prevalenti: dei trecentomila operai di
Pietroburgo solo poche migliaia militavano nelle formazioni politiche
organizzate.
Il riapparire dei soviet come
struttura rivoluzionaria di base nel febbraio '17, al profilarsi della nuova
esplosione rivoluzionaria, sta ad indicare il radicamento di tale
auto-organizzazione democratica nella storia della lunga rivoluzione russa.
Nel 1905, i soviet avevano - in
certi casi - addirittura esercitato il potere: il soviet di Novorossijsk (sul
mar Nero) depose il governatore locale e istituì tribunali. A Krasnojarsk, in
Siberia, il soviet incluse rappresentanti dei soldati (un carattere che divenne
stabile nel '17: una delle cause della rivoluzione fu appunto la guerra). La
Siberia era la via per le truppe che rientravano dalla Manciuria, sconfitte dai
giapponesi. Gli insorti - nota Chamberlin - controllavano a tal punto le
comunicazioni che il governo comunicava coi suoi generali via Londra e
Pechino».
Nel febbraio '17 il radicamento
dei soviet, in concomitanza con il crollo dell'autocrazia, fu assai più
profondo; tanto da esautorare lo stesso governo provvisorio. Scriveva il 22
marzo '17 il ministro della guerra di Kerenskij: «Il governo provvisorio non
possiede un potere reale, i suoi ordini sono eseguiti solo per quel tanto che è
permesso dal soviet degli operai e dei soldati, che ha in mano gli elementi più
importanti del vero potere, cioè i soldati, le ferrovie, il servizio postale e
telegrafico. Si può dire in forma più netta che il governo provvisorio esiste
solo in quanto il soviet glielo permette. Specialmente in materia militare gli
ordini che si possono dare non devono essere fondamentalmente in conflitto con
le deliberazioni del suddetto soviet».
Certo il soviet di Pietrogrado
era l'asse portante del potere rivoluzionario, ma non vanno trascurati i soviet
provinciali. Si superava così il limite giacobino, e poi della Comune parigina
del 1871: una testa rivoluzionaria che camminava troppo spedita rispetto al
resto del paese. Questa è la principale novità rappresentata dall'esperienza
sovietica nella storia della democrazia moderna. Il primo concreto modo di dar
vita ad una democrazia diretta non già limitatamente ad una singola, per quanto
influente metropoli, ma ad un paese dall'estensione immensa. Che è poi il
maggior proble¬ma della democrazia moderna, se non vuol snaturarsi - come già
ammoniva Rousseau con allarme - in un meccanismo di delega che finisce col
negare la premessa stessa della democrazia. (Che infatti nelle antiche comunità
di epoca arcaica era sempre democrazia diretta).
Così si spiega, nei mesi tra il
febbraio e l'ottobre, la spinta controrivoluzionaria (Kornilov) mirante a
mettere fuori legge queste ingombranti e influenti strutture di base e la
parola d'ordine di Lenin (un tempo diffidente): «Tutto il potere ai soviet». Si
può dire che la diarchia tra soviet e governo provvisorio era alla lunga
insostenibile, e che dunque la scelta obbligata era, alla fine o Kornilov o
Lenin. La vittoria di Lenin passò attraverso la conquista della «maggioranza»
da parte di bolscevichi nel soviet di Pietroburgo. E qui il ruolo di Trockij -
ritornato alla testa dei soviet della capitale come già nel 1905 - fu
grandissimo.
Nell'autobiografia del grande dirigente bolscevico, così ricca di
pagine letterariamente rilevanti, ve n'è una che descrive in modo vivo
l'eccitazione di quei mesi e l'instancabile oratoria con cui Trockij conquistò
giorno dopo giorno la maggioranza ai bolscevichi. Descrive i suoi quotidiani comizi
nell'edificio del Circo moderno: «Le gallerie minacciavano di crollare sotto il
peso. Per giungere alla tribuna ero costretto a passare per un corridoio
stretto tra la folla... Nell'atmosfera tesa per l'aspettativa scoppiavano
grida, urli appassionati. Attorno a me, sopra di me, gomiti premuti gli uni
contro gli altri, petti, teste. Parlavo come da un'ardente caverna di corpi
umani. Quando facevo un gesto un po’ più ampio, colpivo sempre qualcuno, che mi
faceva gentilmente capire di non preoccuparmi, di continuare, di non
interrompermi. Nella tensione elettrica della folla appassionata non ci poteva
essere stanchezza. La folla voleva sapere, capire, trovare la propria strada.
In certo momenti si aveva la sensazione di sentire con le labbra l'avidità di sapere
di questa moltitudine fusa in un essere solo. Allora gli argomenti elaborati
prima, le parole già preparate, venivano meno, scomparivano sotto la pressione
imperiosa della sensibilità comune, e dall'oscurità uscivano altre parole,
altri argomenti, belli e pronti, imprevisti per l'oratore, ma necessari per la
massa. E l'oratore stesso aveva l'impressione di ascoltare se stesso, di non
poter stare al passo coi suoi pensieri, e la sua sola preoccupazione era di non
cadere come un sonnambulo dal tetto, ridestato dal suono delle sue parole»
(...) «Rientravo esausto dopo la mezzanotte, nel dormiveglia trovavo argomenti
più solidi da contrapporre agli avversari politici, e alle 7 del mattino, a
volte ancora prima, venivo strappato dal sonno da odiosi, insopportabili colpi
alla mia porta. Mi cercavano per un comizio».
Le cause del declino di questa
fase ardente della rivoluzione sono ben note: il fallimento della rivoluzione
in Europa, l'isolamento e la necessaria scelta dell'auto-contenimento, la
guerra civile, il sacrificio dei migliori, lo scoraggiamento diffuso innanzi
tutto nella classe operaia. «Non fu Stalin -scrisse acutamente Deutscher - a
distruggere la democrazia proletaria della prima fase della rivoluzione. Essa
languiva già prima del 1923-24; Stalin, al massimo le diede il colpo di grazia»
(La Russia dopo Stalin, Mondadori,
1954, p.42). Stalin, quest'uomo «staccatosi come un'ombra da un muro del
Cremlino - scrisse una volta Trockij - per succedere a Lenin». Eppure è sensato
riconoscere con Deutscher che «il corso generale dell'epoca trovò in Stalin il
suo organo. Se non fosse stato Stalin, sarebbe stato un altro».
Eppure i soviet sopravvissero
anche all'epoca ferrea, alla distruzione progressiva di tutti gli altri
partiti, alla guerra civile, alla lunga dittatura di Stalin. Restarono e sono
tuttora una potenzialità. Pur impegnatosi a serbare in vita i partiti che non
combattessero con le armi contro la rivoluzione. Lenin ruppe questo impegno nel
fuoco della lotta per la sopravvivenza della rivoluzione. «Distrusse - ha
scritto Deutscher - la democrazia sovietica e mise al bando i partiti,
mantenendo però la democrazia nelle file bolsceviche. Ma non poteva concedere
ai bolscevichi la libertà che aveva negato agli altri». «Per decenni - egli
conclude - la libertà fu bandita dalla Russia perché era, o si supponeva che
fosse, la nemica del socialismo. Se fosse stata libera di scegliere la propria
via, la Russia non avrebbe certo marciato nella direzione in cui il bolscevismo
l'ha condotta. Ma la libertà può tornare a essere l'alleata e l'amica del
socialismo: allora i quarant'anni di vagabondaggio nel deserto potranno aver
fine».
“il manifesto”, 4 marzo 1990
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