20.8.13

Patagonia Far South. Ovvero la fine del mondo (di Francesca Lazzarato)

Un articolo-recensione pieno di citazioni e nondimeno capace di far sognare. E con una sua bella circolarità. Comincia con l’antefatto di un aneddoto letterario, termina con il suo epilogo. Una bella storiella peraltro. (S.L.L.)
La Trochita
Quando nel 1976 lo scrittore Paul Theroux partì da Boston per raggiungere la Patagonia in treno, fece sosta a Buenos Aires dove fu invitato a prendere il tè con Borges. Un incontro in cui si parlò soprattutto di letteratura, finché l'americano rivelò la sua destinazione e il suo ospite commentò, quasi scandalizzato: «Ma non c'è nulla, laggiù».
Anche per Borges la Patagonia - estremo sud del continente americano che si conclude con il gelido arcipelago della Terra del Fuoco - era dunque definita da parole come: deserta, infinita, desolata, selvaggia, solitaria, remota.
Le stesse usate tra il XVI e il XX secolo da esploratori quali Pigafetta, che intorno al 1520 fu il cronista della spedizione di Magellano (Il primo viaggio intorno al mondo, Neri Pozza, 1994), o Thomas Falkner, gesuita e medico inglese nonché autore di A Description of Patagonia and the adjoining parts of South America (1774), o Charles Darwin, che accompagnò il capitano Fitzroy nel suo secondo viaggio a bordo del «Beagle» (Viaggio di un naturalista intorno al mondo, Newton Compton, 2008). A loro (e a tanti come loro) si deve la nascita di una letteratura scientifica e di viaggio oggetto del brillante saggio di uno studioso argentino, Ernesto Livon-Grossman (Geografias Imaginarias, Beatriz Viterbo, 2004), in cui si analizza lo sterminato corpus di scritti prodotto da avventurieri, scienziati, militari, missionari venuti da lontano, ma anche da criollos nazionalisti decisi a includere una volta per tutte la vastità patagonica nel territorio argentino.

Formidabili presenze
È attraverso questi differenti sguardi che si è andato formando e consolidando il mito della Patagonia : i grandi fuochi lungo le rive e i giganti avvistati da Magellano e Pigafetta; i nativi dalle «orribili fattezze» descritti dal francese Gunnard a metà del XIX secolo; i quattro «primitivi» che il capitano Fitzroy portò in Inghilterra per esibirli come «meraviglie» e trasformarli in compìti gentiluomini e gentildonne capaci di incivilire, al ritorno, i loro compagni; gli infaticabili indios teuelches con cui il giovane aristocratico inglese George Musters viaggiò da Punta Arenas a Rio Negro (At Home with the Patagonians, 1873) . Attorno a questo nucleo di racconti si sono via via addensati utopie, esperimenti sociali come la Sociedad Obrera, rivolte contro le rapine e le violenze dei proprietari terrieri e della loro Liga Patriotica, stragi di indios cacciati come animali dai sanguinari «padri della patria» argentini e dai latifondisti che consideravano impensabile condividere le loro terre sconfinate con le tribù dei nativi.
Al crescere della leggenda hanno contribuito presenze formidabili come quelle dell'anarchico spagnolo Antonio Soto, del giovane Errico Malatesta (che in Patagonia fu cercatore d'oro e cacciatore di foche), del salesiano alpinista Alberto Maria De Agostini (Monseñor Patagonia di Germán Sopeña, Editorial Elefante Blanco, 2002), dell'aviatore «postino» Saint Exupery, di scrittori-viaggiatori come Bruce Chatwin, che per molti resta il cantore per eccellenza di una terra nella quale, tuttavia, andò a cercare soprattutto lontane tracce di Europa.
A Theroux, viaggiatore ormai lontano da quell'esotismo che, secondo lo scrittore argentino César Aira, nel XIX secolo accompagna l'espansione capitalista e la costruzione di nuove identità nazionali, nonché amico di Bruce Chatwin con il quale scrisse Ritorno in Patagonia (Adelphi, 1991), dobbiamo un contributo particolarmente prezioso perché dalla sua decisione di spostarsi in treno è nato nel 1979 un libro intitolato The Old Patagonian Express (L'ultimo treno della Patagonia, Baldini Castoldi Dalai, 2005) che ha in parte contribuito alla sopravvivenza di un curioso treno a scartamento ridotto chiamato La Trochita, per anni unico collegamento tra la provincia di Rio Negro a quella di Chubut.
Divenuto popolarissimo, il treno è scampato alle privatizzazioni selvagge delle ferrovie nazionali compiute da Menem negli anni ' 90, che avevano reso quasi impossibile recarsi in Patagonia se non in aereo o con la camioneta 4x4 evocata da Mempo Giardinelli nel suo Final de novela in Patagonia del 2000 (Finale di romanzo in Patagonia, Guanda, 2001). Oggi, a beneficio dei turisti che sono diventati una delle principali risorse economiche locali, La Trochita continua a viaggiare tra Esquel y Nahuel Pan (un percorso assai più breve di quello originario), con i suoi vagoni dalle panche di legno celeste costruiti nel 1922 e trainati da una locomotiva a vapore.

Una impresa scalcinata
Ed è su quel treno unico al mondo che si svolge Patagonia ciuf ciuf di Raul Argemì (pp. 185, euro 16), appena uscito nella traduzione di Raul Schenardi per Nuova Frontiera, presso la quale era già apparso l'eccellente Penultimo nome di battaglia (2006, pp. 126, euro 14,50), anch'esso ambientato nell'estremo sud del'Argentina, dove Argemì, nato a La Plata nel 1946 e da anni residente a Barcellona, ha diretto il quotidiano «Rio Negro» dopo aver trascorso dieci anni nelle carceri della dittatura.
A viaggiare sulla lentissima Trochita, insieme a turisti assortiti, a una partoriente, a un macchinista croato che usa uno spagnolo quasi inventato, a un senatore corrotto e a diversi poliziotti ci sono nientemeno che Butch Cassidy, il bandito americano che insieme a Sundance Kid migrò dalla frontiera nord americana verso quello che qualcuno ha definito il Far South (le loro avventure in Argentina sono raccontate da Osvaldo Aguirre in La Pandilla Salvaje, Butch Cassidy en la Patagonia, Editorial Norma, 2006) e Juan Bautista Bairoletto, gaucho figlio di emigranti italiani che nella prima metà del '900 fu un vero Robin Hood della Pampa, con forti simpatie anarchiche e un destino narrato da libri, canzoni e film, nonché consacrato da un culto che lo ha trasformato in uno degli ammalianti santitos argentini, mai accettati dalla Chiesa ma oggetto della devozione popolare.
In realtà, però, i bandidos a bordo della Trochita sono due balordi, Haroldo Boccini e Genaro Manteiga (il primo, un presunto nipote del bandito americano, il secondo un ex macchinista di metropolitana) decisi a liberare il loro compagno di lotte Beto che viene trasferito nella Unità 28, un carcere nel deserto dove i «ribelli pericolosi diventano pazzi». Tentati per un istante dal furto del denaro destinato alle paghe dei catangos, umili operai ferroviari che si guadagnano la vita scavando nel fango «come gli scarafaggi», a differenza del vero Butch Cassidy i due rinunceranno al bottino per ragioni etiche, e la loro scalcinatissima impresa si trasformerà per il lettore in un viaggio indimenticabile attraverso la Patagonia, ma soprattutto in una sorprendente sfilata di fantasmi: quelli del passato, ossia la memoria dell'immigrazione e l'eco di lotte sociali e magnifiche illusioni; quelli del presente, dalla dittatura alla disfatta economica; e quelli di un domani che annuncia la trasformazione della Patagonia, sia in un gigantesco business con un vasto e lucroso indotto, sia nel resort «esclusivo» dei ricchi che la vanno acquistando pezzo a pezzo.

Territorio come metafora
Il cemento della vicenda è naturalmente l'avventura, intesa come ostinato inseguimento dei propri sogni, in un contesto surreale quanto quello del racconto di Osvaldo Soriano El hijo di Butch Cassidy, uscito nei Cuentos de lo años felices (Editorial Sudamericana, 1993), in cui si narra una incredibile partita di calcio patagonica avvenuta nel 1942, durante la quale il figlio di Butch Cassidy privò l'Italia di tutti i suoi titoli. E alla fine si scoprirà che, se l'avventura di «Butch» e «Bairoletto» è senz'altra uscita che un fuga gioiosa e inutile, valeva comunque la pena di godersela per quel che è, ossia uno spazio di libertà interiore all'interno di un altro più vasto, il cui «vuoto» non aspetta di essere riempito, ma trasforma chi lo attraversa, come aveva intuito W.H. Hudson, grande naturalista e gringo nato nella pampa argentina, che con Idle days in Patagonia (1893), dice Livon Grossoman, «inizia la metaforizzazione del territorio e l'idea che l'immersione nel paesaggio patagonico possa significare un'esperienza di rivelazione personale». E non è verso il sud australe, del resto, che parte il protagonista di Sopra eroi e tombe (Editori Riuniti, 1993) di Ernesto Sabàto, quando tutti i sogni sembrano falliti?
Ma nel romanzo di Argemì c'è un'altra dimensione, quella che accenna alla dura realtà di un territorio alla cui identità si attenta ogni giorno (per di più fingendo di rispettarla, come fanno gli attuali «re» della Patagonia, i Benetton, che dedicano un museo alla cultura dei Mapuche, ma li cacciano dai novecentomila ettari della loro proprietà), e che concentra in pochi vagoni una serie di figure simbolo dell'Argentina contemporanea. Il vuoto della Patagonia, Argemì ce lo dimostra ancora una volta, è dunque incredibilmente pieno, e allora, chiuso il libro e partiti «Cassidy» e «Bairoletto» per la loro ultima fuga, si potrebbe ricorrere di nuovo a Paul Theroux per rispondere al «laggiù non c'è nulla» borgesiano. Sceso in una piccola stazione nel suo viaggio sul Patagonian Express, lo scrittore si trovò immerso nel paesaggio più deserto che avesse mai visto e si ritrovò a pensare: «La fine del mondo è un luogo».


il manifesto 2008.07.30

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