Un articolo-recensione pieno di
citazioni e nondimeno capace di far sognare. E con una sua bella circolarità.
Comincia con l’antefatto di un aneddoto letterario, termina con il suo epilogo.
Una bella storiella peraltro. (S.L.L.)
La Trochita |
Quando nel 1976 lo scrittore Paul
Theroux partì da Boston per raggiungere la Patagonia in treno, fece sosta a
Buenos Aires dove fu invitato a prendere il tè con Borges. Un incontro in cui
si parlò soprattutto di letteratura, finché l'americano rivelò la sua
destinazione e il suo ospite commentò, quasi scandalizzato: «Ma non c'è nulla,
laggiù».
Anche per Borges la Patagonia -
estremo sud del continente americano che si conclude con il gelido arcipelago
della Terra del Fuoco - era dunque definita da parole come: deserta, infinita,
desolata, selvaggia, solitaria, remota.
Le stesse usate tra il XVI e il
XX secolo da esploratori quali Pigafetta, che intorno al 1520 fu il cronista
della spedizione di Magellano (Il primo viaggio intorno al mondo, Neri Pozza,
1994), o Thomas Falkner, gesuita e medico inglese nonché autore di A Description of Patagonia and the adjoining
parts of South America (1774), o Charles Darwin, che accompagnò il capitano
Fitzroy nel suo secondo viaggio a bordo del «Beagle» (Viaggio di un naturalista intorno al mondo, Newton Compton, 2008).
A loro (e a tanti come loro) si deve la nascita di una letteratura scientifica
e di viaggio oggetto del brillante saggio di uno studioso argentino, Ernesto
Livon-Grossman (Geografias Imaginarias,
Beatriz Viterbo, 2004), in cui si analizza lo sterminato corpus di scritti
prodotto da avventurieri, scienziati, militari, missionari venuti da lontano,
ma anche da criollos nazionalisti
decisi a includere una volta per tutte la vastità patagonica nel territorio
argentino.
Formidabili presenze
È attraverso questi differenti
sguardi che si è andato formando e consolidando il mito della Patagonia : i
grandi fuochi lungo le rive e i giganti avvistati da Magellano e Pigafetta; i
nativi dalle «orribili fattezze» descritti dal francese Gunnard a metà del XIX
secolo; i quattro «primitivi» che il capitano Fitzroy portò in Inghilterra per
esibirli come «meraviglie» e trasformarli in compìti gentiluomini e gentildonne
capaci di incivilire, al ritorno, i loro compagni; gli infaticabili indios
teuelches con cui il giovane aristocratico inglese George Musters viaggiò da
Punta Arenas a Rio Negro (At Home with the Patagonians, 1873) . Attorno a
questo nucleo di racconti si sono via via addensati utopie, esperimenti sociali
come la Sociedad Obrera, rivolte
contro le rapine e le violenze dei proprietari terrieri e della loro Liga
Patriotica, stragi di indios cacciati
come animali dai sanguinari «padri della patria» argentini e dai latifondisti
che consideravano impensabile condividere le loro terre sconfinate con le tribù
dei nativi.
Al crescere della leggenda hanno
contribuito presenze formidabili come quelle dell'anarchico spagnolo Antonio
Soto, del giovane Errico Malatesta (che in Patagonia fu cercatore d'oro e
cacciatore di foche), del salesiano alpinista Alberto Maria De Agostini (Monseñor Patagonia di Germán Sopeña,
Editorial Elefante Blanco, 2002), dell'aviatore «postino» Saint Exupery, di
scrittori-viaggiatori come Bruce Chatwin, che per molti resta il cantore per
eccellenza di una terra nella quale, tuttavia, andò a cercare soprattutto
lontane tracce di Europa.
A Theroux, viaggiatore ormai
lontano da quell'esotismo che, secondo lo scrittore argentino César Aira, nel
XIX secolo accompagna l'espansione capitalista e la costruzione di nuove
identità nazionali, nonché amico di Bruce Chatwin con il quale scrisse Ritorno in Patagonia (Adelphi, 1991),
dobbiamo un contributo particolarmente prezioso perché dalla sua decisione di
spostarsi in treno è nato nel 1979 un libro intitolato The Old Patagonian Express (L'ultimo
treno della Patagonia, Baldini Castoldi Dalai, 2005) che ha in parte
contribuito alla sopravvivenza di un curioso treno a scartamento ridotto
chiamato La Trochita, per anni unico
collegamento tra la provincia di Rio Negro a quella di Chubut.
Divenuto popolarissimo, il treno
è scampato alle privatizzazioni selvagge delle ferrovie nazionali compiute da
Menem negli anni ' 90, che avevano reso quasi impossibile recarsi in Patagonia
se non in aereo o con la camioneta 4x4
evocata da Mempo Giardinelli nel suo Final
de novela in Patagonia del 2000 (Finale
di romanzo in Patagonia, Guanda, 2001). Oggi, a beneficio dei turisti che
sono diventati una delle principali risorse economiche locali, La Trochita
continua a viaggiare tra Esquel y Nahuel Pan (un percorso assai più breve di
quello originario), con i suoi vagoni dalle panche di legno celeste costruiti
nel 1922 e trainati da una locomotiva a vapore.
Una impresa scalcinata
Ed è su quel treno unico al mondo
che si svolge Patagonia ciuf ciuf di
Raul Argemì (pp. 185, euro 16), appena uscito nella traduzione di Raul
Schenardi per Nuova Frontiera, presso la quale era già apparso l'eccellente Penultimo nome di battaglia (2006, pp.
126, euro 14,50), anch'esso ambientato nell'estremo sud del'Argentina, dove
Argemì, nato a La Plata nel 1946 e da anni residente a Barcellona, ha diretto
il quotidiano «Rio Negro» dopo aver trascorso dieci anni nelle carceri della
dittatura.
A viaggiare sulla lentissima
Trochita, insieme a turisti assortiti, a una partoriente, a un macchinista
croato che usa uno spagnolo quasi inventato, a un senatore corrotto e a diversi
poliziotti ci sono nientemeno che Butch Cassidy, il bandito americano che
insieme a Sundance Kid migrò dalla frontiera nord americana verso quello che
qualcuno ha definito il Far South (le loro avventure in Argentina sono
raccontate da Osvaldo Aguirre in La
Pandilla Salvaje, Butch Cassidy en la Patagonia, Editorial Norma, 2006) e
Juan Bautista Bairoletto, gaucho figlio di emigranti italiani che nella prima
metà del '900 fu un vero Robin Hood della Pampa, con forti simpatie anarchiche
e un destino narrato da libri, canzoni e film, nonché consacrato da un culto
che lo ha trasformato in uno degli ammalianti santitos argentini, mai accettati
dalla Chiesa ma oggetto della devozione popolare.
In realtà, però, i bandidos a bordo della Trochita sono due
balordi, Haroldo Boccini e Genaro Manteiga (il primo, un presunto nipote del
bandito americano, il secondo un ex macchinista di metropolitana) decisi a
liberare il loro compagno di lotte Beto che viene trasferito nella Unità 28, un
carcere nel deserto dove i «ribelli pericolosi diventano pazzi». Tentati per un
istante dal furto del denaro destinato alle paghe dei catangos, umili operai
ferroviari che si guadagnano la vita scavando nel fango «come gli scarafaggi»,
a differenza del vero Butch Cassidy i due rinunceranno al bottino per ragioni
etiche, e la loro scalcinatissima impresa si trasformerà per il lettore in un
viaggio indimenticabile attraverso la Patagonia, ma soprattutto in una
sorprendente sfilata di fantasmi: quelli del passato, ossia la memoria
dell'immigrazione e l'eco di lotte sociali e magnifiche illusioni; quelli del
presente, dalla dittatura alla disfatta economica; e quelli di un domani che
annuncia la trasformazione della Patagonia, sia in un gigantesco business con
un vasto e lucroso indotto, sia nel resort «esclusivo» dei ricchi che la vanno
acquistando pezzo a pezzo.
Territorio come metafora
Il cemento della vicenda è
naturalmente l'avventura, intesa come ostinato inseguimento dei propri sogni,
in un contesto surreale quanto quello del racconto di Osvaldo Soriano El hijo di Butch Cassidy, uscito nei Cuentos de lo años felices (Editorial
Sudamericana, 1993), in cui si narra una incredibile partita di calcio
patagonica avvenuta nel 1942, durante la quale il figlio di Butch Cassidy privò
l'Italia di tutti i suoi titoli. E alla fine si scoprirà che, se l'avventura di
«Butch» e «Bairoletto» è senz'altra uscita che un fuga gioiosa e inutile,
valeva comunque la pena di godersela per quel che è, ossia uno spazio di
libertà interiore all'interno di un altro più vasto, il cui «vuoto» non aspetta
di essere riempito, ma trasforma chi lo attraversa, come aveva intuito W.H.
Hudson, grande naturalista e gringo nato nella pampa argentina, che con Idle days in Patagonia (1893), dice
Livon Grossoman, «inizia la metaforizzazione del territorio e l'idea che
l'immersione nel paesaggio patagonico possa significare un'esperienza di
rivelazione personale». E non è verso il sud australe, del resto, che parte il
protagonista di Sopra eroi e tombe
(Editori Riuniti, 1993) di Ernesto Sabàto, quando tutti i sogni sembrano
falliti?
Ma nel romanzo di Argemì c'è
un'altra dimensione, quella che accenna alla dura realtà di un territorio alla
cui identità si attenta ogni giorno (per di più fingendo di rispettarla, come
fanno gli attuali «re» della Patagonia, i Benetton, che dedicano un museo alla
cultura dei Mapuche, ma li cacciano dai novecentomila ettari della loro
proprietà), e che concentra in pochi vagoni una serie di figure simbolo
dell'Argentina contemporanea. Il vuoto della Patagonia, Argemì ce lo dimostra
ancora una volta, è dunque incredibilmente pieno, e allora, chiuso il libro e
partiti «Cassidy» e «Bairoletto» per la loro ultima fuga, si potrebbe ricorrere
di nuovo a Paul Theroux per rispondere al «laggiù non c'è nulla» borgesiano.
Sceso in una piccola stazione nel suo viaggio sul Patagonian Express, lo
scrittore si trovò immerso nel paesaggio più deserto che avesse mai visto e si
ritrovò a pensare: «La fine del mondo è un luogo».
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