1.2.10

"E gli anni passano" (quattro racconti di vita di Liliana Genovese)


Liliana Genovese è mia madre. E gli anni passano è il titolo, ricavato dal verso di una canzonetta degli anni 50, che ha scelto per raccogliere in un volumetto i suoi racconti di vita. Uno dei miei fratelli lo ha messo insieme per amici e parenti corredandolo con qualche foto. Il mio, pertanto, non è un giudizio imparziale. Ma sono convinto che i testi della Genovese, delicati, ingenui ed ironici, siano assai belli e che la loro lettura potrebbe dare gioia a molte persone. Ancora più gioia ha dato, a quanti ne hanno avuto il privilegio, ascoltarne la lettura dalla sua voce. E' una raccontatrice nata, ha la gioia del narrare, a voce e per iscritto, e, se i lettori restano ad oggi pochi, non le sono mai mancati ascoltatori esigenti ed entusiasti, primi fra tutti i 12 nipoti. Le due femmine, oggi apprezzate donne di scienza in campi assai diversi, dicono che la loro vita sarebbe assai più povera e fredda senza le storie, i racconti di vita e le favole della nonna Liliana. Ho pertanto buone ragioni per sperare in una accoglienza affettuosa e in un gradimento dei testi da parte dei ventiquattro frequentatori di questo blog.

*

Fratello e sorella

29 luglio 1947. Ho immagini molto sfocate del mio matrimonio, però ricordo molto bene la sera prima che avvenisse. La mia casa era completamente trasformata. La camera da letto dei miei nonni, attigua al salotto, sembrava una chiesa. La mia madrina Clementina, sorella di padre Muratore, aveva fatto lì un altare bellissimo, c’era perfino l’organo e le sedie: si sarebbe svolto in casa il mio matrimonio.

In quel periodo si usava così nelle famiglie che se lo potevano permettere. La mattina il mio fidanzato era andato a Caltanissetta a prendere tutti i vestiti che mi aveva fatto confezionare da una bravissima sarta, la Capizzi, così si chiamava. Il mio abito da sposa si poteva immaginare solo nelle favole e c’erano tutti gli accessori che servivano. L’usanza del paese era che il fidanzato vestisse di tutto punto la fidanzata. Io non riuscivo a credere che tutto ciò fosse reale.

La sera vennero a trovarmi le mie amiche. In casa era un viavai di persone, parenti, e a tutti si offrivano dolci. Di cosa avvenne l’indomani non so raccontare niente. La cerimonia, le persone che intervennero, non me le ricordo. So solo che, quando apparvi al braccio di mio padre, il mio fidanzato aveva gli occhi pieni di lacrime.

Erano le quattro del pomeriggio quando mi tolsero l’abito bianco e indossai un vestito da viaggio. Era di lino celeste scuro, la giacca aveva le tasche tutte lavorate a punto inglese traforato, la camicetta sotto era senza maniche con un gran collo anch’esso ricamato. La gonna era lunghetta, scarpe e borsa di cuoio chiaro. Partimmo sul calesse con due cavalli e l’ombrellino, tra i baci e i saluti di tutti. I miei genitori non mi fecero alcun discorso. Arrivati che fummo alla stazione prendemmo il treno che portava a Palermo. Io purtroppo non potevo sopportare i grandi viaggi, mi veniva il mal d’auto. In treno era un po’ meglio e avevamo deciso di fermarci in quella città. Con la testa mi appoggiavo alla spalla di mio marito e fu così che arrivammo. Siamo andati all’Hotel del Sole (mi pare che si chiamasse così), con la tessera che diceva “coniugata”.

Che dirvi? Per mio marito ero una persona preziosa, credeva che potessi rompermi o scomparire da un momento all’altro. Siamo stati assieme 56 anni.

Palermo è una città splendida. Io c’ero stata da signorina, ma da sposata era tutt’altra cosa. C’era in quel periodo la Stagione Lirica all’aperto. Non ne abbiamo persa una di opera. A mattina ci svegliavamo e cantavamo i vari pezzi che avevamo sentito e che ci erano piaciuti. La sera alla Sirenetta, a Mondello. Giravamo per i negozi. Insomma tutto era bellissimo, mi ero perfino un po’ ingrassata.

Ma tutte le cose finiscono, si doveva tornare al paese, dove avevamo arredato un bell’appartamento e io dovevo occuparmi di tutto. Quando arrivammo, salutai i miei genitori, i miei fratelli, i miei nonni e fu come se io arrivassi dall’America, tanto mi erano mancati ed io ero mancata a loro. Mia suocera c’invitò a pranzo, pollo ruspante ripieno; a pensarci riesco a risentirne il sapore.

Il pomeriggio andavo da mia madre e poi da mia suocera, mi davo da fare a fare la signora. In quel tempo non c’erano i telefoni in casa; io avevo una ragazza che mi aiutava nelle cure domestiche e scrivevo bigliettini che mandavo a mia madre: “Come si fa questo? come quell’altra cosa?”.

Il tempo passava. Un giorno che mi trovavo in casa dai miei, una parente mi si avvicinò e, con fare confidenziale, cominciò a farmi delle domande: mi piaceva mio marito? stavo bene con lui? “Raccontami – mi diceva – voglio sapere tutto”. Oggi le ragazze parlano con molta disinvoltura, non ci sono tabù, io invece mi sentivo terribilmente a disagio. Ho pensato un poco e poi, con voce sicura, ho detto: “Ma che vuoi sapere? Io e mio marito siamo come fratello e sorella”. E lei ad insistere: “Fratello e sorella?”. “Certo”- risposi - e di quest’argomento non voglio più parlarne”. Ma invece se ne parlò eccome…

La tipa andò da mia madre e cominciò a dire che mi avevano rovinato: un uomo che si comportava come un fratello che uomo era? Bisognava approfondire, parlare con me, forse magari fare annullare il matrimonio dalla Sacra Rota.

Mia madre cadeva dalle nuvole. Pensava: se era vero, perché confidarmi con una estranea e non con lei? Che forse non mi avrebbe capita? I miei avevano sotto casa un magazzino e in un angolo c’era un forno a legna. Mia madre stava facendo le focacce e il parlare di quella cornacchia l’aveva fatta impallidire, ma era nell’impossibilità di dire qualcosa. Erano le quattro del pomeriggio, era l’estate di san Martino, il sole di novembre era caldo, ma il vento piacevole e fresco. Mia madre non stette a pensarci neppure un momento, me la vidi arrivare con il fiatone, tanta era la fretta di parlare con me. In quei giorni, non so perché, ma avevo sempre la nausea e, qualsiasi cosa mangiassi, mi veniva da vomitare, stavo proprio male. Quando vidi mia madre la gioia fu grande: lei sapeva i rimedi per tutte le cose e bastava vederla perché io mi sentissi meglio.

“Cara – mi disse – stai tranquilla, questi malori vengono quando si aspetta un bambino”. Mi coccolò, mi fece distendere e mi preparò l’allorata (come diceva lei), mi disse che dovevo essere felice, come era felice lei di diventare nonna: “La maternità è l’evento più bello nella vita di una donna”. Andò via leggera come una piuma. Cara mamma mia.

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Latte e biscotti

Era l’anno del Signore 1961. Era un venerdì di febbraio, pioveva e il vento soffiava forte. Finalmente il dolore era passato. Erano le sette del mattino ed io stavo immobile nel letto per fare in modo che non potesse tornare. Soffrivo da alcuni anni perché avevo dei calcoli nella cistifellea e, quando si muovevano, mi provocavano delle coliche. Ma adesso aspettavo il mio quarto bambino e quei disturbi erano molto frequenti.

Mio marito stava accanto a me e, guardandolo dolcemente, gli dicevo: “Lillo, ti ricordi l’anno scorso?”.

“L’anno scorso!? E che è successo?”

“Ti ricordi quanto ti volevo bene?”.

“E ora?”.

“Che c’entra? Si parlava dell’anno passato”.

Sorrideva e rideva il mio amatissimo marito. E, quando cominciava a vestirsi, io continuavo: “Lillo, non davanti a una signora” — Lui voltava la testa di qua e di là — “E dov’è la signora? dov’è?”.

Ma non c’era molto da scherzare, io stavo molto male e mio marito era preoccupato. Eravamo stati da diversi specialisti, ma i pareri non erano tutti uguali. Chi diceva “si deve operare”, chi no (“il bambino ne potrebbe risentire”). Ma mio marito non si fermava. A Palermo c’erano il professore Turchetti, clinico, e il professore Latteri, chirurgo, due luminari; sicuramente avrebbero fatto la diagnosi giusta. Avevamo una Fiat 1100 special, e una mattina si partì. Io mi sentivo come Anita Garibaldi colpita dalla malattia, che seguiva il suo uomo e non era in grado di pensare.

Arrivati che fummo, andammo prima alla clinica privata di Latteri. La visita era prenotata e ci ricevette presto. “La signora si deve operare, e subito”. Ce ne andammo dal prof. Turchetti e quello disse, sebbene non fosse un chirurgo, che la cistifellea doveva essere tolta”.

Fu stabilito il giorno dell’operazione. Mio marito aveva grande fiducia, dal momento che “due menti capitali” come Turchetti e Latteri avevano detto sì.

I miei figli sarebbero rimasti da mia suocera e mia mamma sarebbe venuta con me. Ma la mattina in cui si doveva partire mio figlio Salvatore aveva la febbre a 39. La mia dolce suocera disse che era un segno del destino: bisognava rimandare. Partimmo per Palermo 8 giorni dopo.

La clinica privata era bella; oltre alla stanza avevamo un bagno personale, un altro piccolo locale e una terrazza. Un giorno di digiuno e l’indomani pronta per i ferri.

“Meno male che è capitato a me.” — dicevo con grande incoscienza — Se fosse toccato a qualcuno dei miei avrei sofferto troppo”.

Mio marito mi raccontò che, quando il Prof. Latteri era uscito dalla sala operatoria, sembrava un macellaio, tanto era sporco di sangue. “Tutto a posto – aveva detto – la signora si rimetterà e potrà cominciare una nuova vita”. Quando mi svegliai, attorno a me, mia madre e mio marito piangevano.

Passò il primo giorno. Non avevo un filo di grasso e perciò il taglio cominciava a rimarginarsi. Il chirurgo guardando diceva “che bella ferita!”. Il giorno appresso domandai se per caso non avessero dimenticato di portarmi la colazione. “Stia tranquilla - mi disse Latteri – domani mangerà latte e biscotti”.

L’indomani si presentò l’infermiera e mi chiese se avevo dormito bene.

“Certo” – risposi.

“Per la colazione dovrà ancora aspettare”.

“No – dissi - vada a prendere un po’ di latte e qualche altra cosa. Me l’ha detto il professore”.

Avevo mangiato e finalmente mi sentivo a posto.

Verso le 11 c’era la visita del Prof. Latteri col seguito di medici. Quando mi vide, disse che tutto andava per il meglio e che l’indomani avrei certamente mangiato qualcosa.

“Io l’ho già fatto” – risposi.

Successe il finimondo. Dicevano che ero in pericolo. Medici, infermieri, flebo, tutti addosso a me. Chi mi aveva portato la colazione senza il permesso? L’unica colpevole ero io.

Ma il cielo aiuta le persone ingenue e io me la sono cavata solo con la protezione degli Angeli. Qualche mese dopo è nato Cesare. Bello e sano.

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Il sacrificio

Anno del Signore 1940. L’Italia era entrata in guerra. Eravamo a Petralia Sottana e nella nostra famiglia nulla era cambiato. La nostra cerchia familiare era abbastanza ristretta: mio nonno era anziano, mio padre maresciallo dei carabinieri, mio fratello Cesare, il più grande di noi, aveva tredici anni. Così nessun soldato in partenza. Ricordo l’entusiasmo delle mie compagne ed amiche: chi il padre, chi il fratello, chi lo zio, qualche cognato, e ognuna di loro parlava della grande esperienza che avrebbero fatto i loro cari per l’onore della patria.

Già la partenza aveva il potere di emozionarmi fino alle lacrime. Mi raccontavano del treno che si muoveva, dei fazzoletti sventolati, di questi giovani baldi che sicuramente sarebbero diventati eroi. Io piangevo, la mia nonna mi consolava e mi diceva che ero fortunata. Ma per me non era così. Nella mia famiglia la radio era un elemento importantissimo; si ascoltavano i giornali radio, poi trasmettevano un programma con le canzoni di guerra. “Caro papà – faceva una – ti scrive la mia mano, quasi mi trema, lo comprendi tu. Son tanti giorni che mi stai lontano, e dove vivi non lo dici più”. Mi commuovevo e non riuscivo più a cantare.

Io e il mio diletto fratello Gigi amavamo molto la musica, bastava che sentissimo una canzone e subito dopo ne imparavamo musica e parole. Ma quelle del regime ci affascinavano. Le conoscevamo tutte; e anche ora le ricordo alla perfezione. Mia nonna era la signora della radio (così la chiamava mio nonno) e, ricordando quel periodo, mi viene in mente che questi nonni così particolari ci hanno trasmesso l’amore per tutte le cose. Mio padre era l’autorità, ma i nostri problemi solo il nonno li comprendeva.

La guerra che doveva essere lampo invece durava e faceva morti. Si parlava di autarchia, c’erano le tessere per prelevare zucchero, pasta, farina e anche le stoffe non si potevano comprare a volontà. Mia nonna rivoltava i cappotti, da un lenzuolo di lino faceva per me e mia sorella vestiti da sogno, con quattro grandi fazzoletti faceva dei capolavori e nessuno indovinava da dove venissero quei colori e quei modelli che la nonna inventava.

Venivano in casa nostra a fare visite le mogli dei subalterni; quella del brigadiere, poi, era un’amica carissima di mia madre. Un giorno venne a trovarci piangente e si chiuse in una camera con mia madre. Noi ascoltavamo da dietro la porta. Diceva : “Se n’è andato. Non torna più, me lo ha detto, e se fa qualche sciocchezza, mi aiuti il signore… Io non so dove trovarlo. La prego, venga con me, può darsi che lo troviamo”.

Il grande cuore di mia mamma non resse a tanto dolore. Improvvisamente si alzò e andò a sistemarsi: “Venga, signora, usciamo”.

Mia madre disse che sarebbero tornate subito e che noi intanto potevamo fare un disegno. Passarono le ore e non si vedeva nessuno. Finalmente la porta si aprì ed entrarono il brigadiere, la moglie e mia madre. Lo avevano trovato e ora si trattava solo di mettere un po’ di pace. Si chiusero in salotto e la signora gridava: “Io non lo voglio, non mi capisce, non so più da che verso prenderlo”.

Allora mi venne una grande idea. Se non lo voleva nessuno, il poveretto, me lo sarei preso io il caro brigadiere. Entrai là dove c’erano i grandi e con molta serietà dissi: “Me lo prendo io!”.

“Chi?” – chiesero.

“Il brigadiere”

Non capii perché tutti ridevano e poi si abbracciavano.

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L’infermiere

Si era nell’anno del Signore 1998.

La primavera era arrivata con tutti i colori della natura e con i profumi dei fiori, ma la mia famiglia era in una grande angoscia. Mio marito (buonanima) soffriva da sempre di stitichezza, ma da un po’ di tempo le cose erano peggiorate. Pillole, supposte, sciroppi non servivano a niente. Lui stava a letto smaniando e soffrendo.

Al nostro medico curante venne una grande idea: perché non fare un clistere? Bisognava cercare un infermiere, ma noi eravamo fortunati, avendo a Licata una nostra parente medico. Alla telefonata rispose subito: “Che problema c’è? Manderò io un infermiere di Licata e voi non dovrete pensare a niente. Arriverà con tutti gli attrezzi adeguati”. Parlammo all’ammalato con le dovute cautele, preparandolo bene anche mentalmente.

Il giorno tanto atteso finalmente era arrivato. In casa c’era fermento, mio marito attendeva con ansia il momento della liberazione. Il telefono suonò: “Sono l’infermiere. Sono davanti al distributore di benzina. Che faccio?”. Rispondemmo: “Il distributore è proprio di fronte a casa nostra. Guardi su e ci vedrà”. Intanto mio marito, da immobile che era prima, ora saltava da una finestra all’altra. Io, al balcone, vedendo un uomo e credendo che fosse lui, gli gridai a voce alta: “E’ lei l’infermiere del clistere?”. Quel maleducato mi fece un gestaccio e io chiusi il balcone.

Ma tutte le cose hanno una fine e quell’infermiere intelligente trovò la nostra casa. Finito che fu l’intervento, eravamo tutti molto sollevati. Il poveruomo ci salutò e cominciò a scendere le scale. Ma risalì tutto agitato: “Non trovo la chiave della macchina. Come parto?”. Allora tutti alla ricerca della chiave, io non intendevo tenermelo in casa.

Si era nella camera da letto, ma non si trovava niente. “Avete una stanza da pranzo?”. E tutti a cercare. Bagni, uno, due, e tutti appreso a lui. Salotto, altre stanze, ma invano, la chiave non c’era. Posata su una sedia c’era una giacca. L’uomo guardò nelle tasche. “Eccola dove si era nascosta”.

Un sospiro di sollievo: era finita l’attesa. Ai saluti mi guardai bene dal dire arrivederci. Lui cominciava a scendere le scale, quando mia nuora Mariella gridò: “Fermatelo! Non fatelo andare via!”.

Che era successo? Si era presa la giacca nuova di mio marito ed aveva lasciato la sua, quella da cui aveva tirato fuori la chiave. Risalì, mi porse la giacca di Lillo e addolorato mi disse: “Sa, signora, è la prima volta che mi prendo una giacca come questa”.

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