Craxi. Val la pena ricordarlo?
In tanti si affannano in questi giorni a celebrare Craxi. Qualcuno si spinge oltre: denuncia in Mani Pulite il complotto che avrebbe distrutto con il suo leader anche il Psi, il più antico partito italiano. La memoria e la documentazione raccontano un’altra storia, in cui la vittima resta il Psi, ma l’assassino se non Craxi è il craxismo.
Bettino Craxi giunse alla guida del Psi nell’estate del 1976. Una alleanza trasversale alle correnti estrometteva il vecchio De Martino e dava spazio a dirigenti più giovani e ambiziosi. Il Psi del tempo era fortemente ancorato a sinistra; conservava una base operaia e popolare, aspirava a grandi riforme sociali, aveva un rapporto con i settori più libertari del movimento studentesco. Nel Psi siciliano – è vero – imperversava il “lauricellismo”, un assetto notabilare con forti elementi di clientelismo, ma perfino qui viveva una sensibilità di sinistra. Non di rado a noi comunisti accadeva di sentirci scavalcati non solo sulle libertà civili, ma anche sulle questioni sociali. Ed erano spesso degli assessori socialisti - nelle città siciliane - a distinguersi nel tentativo di bloccare speculazione e abusivismo, mentre noi del Pci eravamo più imballati per via del cosiddetto abusivismo di necessità. Nell’Agrigento della frana (1966), del resto, era stato un ministro socialista, Giacomo Mancini, a nominare la temutissima Commissione d’indagine Martuscelli, la cui relazione finale mise in luce un “verminaio” di abusi, illeciti, incurie e complicità.
Dal 1976 tutto cambia: comincia quella che Berlinguer definì “mutazione genetica”. Craxi lancia la sfida a Dc e Pci in nome dell’ “alternativa socialista”, ma cambia il simbolo del partito. Rimpiccioliti e sottomettessi, i tradizionali emblemi del lavoro (falce, martello e libro) lasciano spazio al garofano. Al (quasi) dichiarato distacco dal lavoro corrisponde la sempre maggiore attenzione agli “emergenti” ed ai “rampanti”, esemplificati al massimo grado da Berlusconi.
Negli anni ottanta arrivano nuovi strappi. Il presidente socialista della Repubblica, l’amatissimo Pertini, aveva inaugurato il suo settennato esortando a “svuotare gli arsenali” e a “riempire i granai”; Craxi, invece, sposa senza riserve la corsa al riarmo di Reagan ed offre Comiso come piattaforma per i missili. Nella base socialista alla disaffezione dei vecchi militanti corrisponde l’arrivo di un ceto politico aggressivo e spregiudicato, che coltiva rapporti con l’affarismo (nel Sud delle mafie diventa talora “malaffarismo”) e con i professionisti in carriera.
Con la presidenza del Consiglio (1983) arrivano altri strappi. Con piglio “decisionista” Craxi taglia per decreto la scala mobile sulle retribuzioni e avvia una deriva che in venti anni porterà i salari dei lavoratori italiani agli ultimi posti in Europa. Solo Berlinguer lesse nel decreto un progetto di lunga lena che mirava a impoverire il lavoro e a ridurne diritti e poteri: morì combattendolo. Il successivo referendum fu perso anche per le incertezze del suo partito.
Per i nuovi socialisti intanto è tempo di festa: l’affitto sistematico dei ristoranti di lusso, le campagne elettorali dispendiose, le grandi barche e le grandi crociere, le scenografie di Panseca, il nuovo Rinascimento made in Italy. Due socialisti moderati e spregiudicati come Mancini e Formica dichiarano il loro spaesamento: il primo afferma che non c’è più un partito socialista ma “un partito craxista”, il secondo parla di “nani e ballerine”.
Esaurita l’esperienza del governo arriva il patto con Andreotti e Forlani (il CAF). Craxi rompe anche con la tradizionale tolleranza libertaria dei socialisti e impone norme proibizioniste sulla “cannabis”(il decreto Vassalli-Jervolino). E’ il 1990 e si avvicina la tempesta di Mani pulite.
Quando sarà arrivata, Craxi si presenterà come capro espiatorio, dirà “tutti ladri nessun ladro”. Ma le responsabilità penali vengono comprovate ed ancora di più emergono le responsabilità politiche: proprio al CAF risale il sistema delle tangenti. Il Psi e la Dc scompaiono nel cataclisma giudiziario e si parla di Seconda Repubblica. Craxi, dal canto suo, si sottrae alla pena e passa gli ultimi anni in Tunisia, fino alla morte nel 2000.
Oggi tentano di presentarlo come vittima, ma per fortuna c’è ancora chi s’indigna e protesta per la santificazione di un primo ministro corrotto che morì latitante. Non sarebbe male affiancare all’indignazione la comprensione: c’è un legame tra l’abbandono dei valori della sinistra (lavoro, pace, diritti, partecipazione, ambiente) e il degrado della politica, tra questione sociale e questione morale. Insomma più che su Craxi sarebbe utile interrogarsi sul craxismo. Anche perché – come direbbe Brecht – “è ancora fecondo il ventre che l’ha generato”.
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