8.2.10

La ghigliottina, una vedova allegra ma non troppo (di Lorenzo Mondo - La Stampa 14 Agosto 2009)

Prima o poi, dopo essermi studiata ben bene la faccenda, ragionerò su questo blog su che cosa debba intendersi esattamente per "giacobinismo", parola e tema su cui, dialogando con questo o con quello, mi capita sovente di contraddirmi. Mi accade in sostanza di proclamarmi "giacobino" con i non giacobini e "non giacobino" con i giacobini. Mi sento giacobino tutte le volte che devo polemizzare con i "moderati", i "realisti", i "gradualisti", specie quando dietro questi approcci si nasconde la passività verso lo stato di cose esistente o quando dietro la teorizzazione dei compromessi necessari mi pare di leggere l'accettazione del punto di vista dei conservatori. Non giacobino, e perfino antigiacobino, mi sento non solo di fronte alle teorizzazioni generali sulla "violenza levatrice della storia", ma anche all'esaltazione dell'azione esemplare, dell'atto simbolico, cui si vorrebbe attribuire un valore costitutivo o liberatorio. Maoista storico, di Mao amavo ed amo una frase che di certo pronunciò, ma cui non sempre fu coerente e che non compare nel "Libretto rosso" delle citazioni: "Le teste non si tagliano! Non sono cavoli, no ricrescono".
Una volta mi indignai con Pietro Ingrao che in un comizio del 1980 a Perugia difese la decisione della "rivoluzione islamica", di cui tanta gente di sinistra era ancora innamorata (con Khomeyni c'erano ancora Montazeri e i Mujaheddin del popolo), di eseguire la condanna a morte dello Scià ovunque si trovasse. Spiegava come nelle rivoluzioni non si possa andare troppo per il sottile e paragonava quella decisione alla scelta del Cln di giustiziare il Duce nell'aprile del 1945. Lo ricordavo, una quindicina di anni dopo con Alexandre Boviatsis, che, cercando di mettere insieme violenza rivoluzionaria e valorizzazione del dissenso, si definiva un "giacobino illuminato". "Ho capito - gli dissi - a te piace la ghigliottina con i fari puntati contro".
In questo post diffondo (un po' ridotta) la recensione di Lorenzo Mondo a un libro sulla ghigliottina di Antonio Castronovo, pubblicata su "La Stampa" il 14 dell'anno scorso, che della "macchina della morte" umanitaria brevemente racconta le origini e le conseguenze. (S.L.L.)

Il 10 ottobre 1789, agli albori della Rivoluzione, il medico Joseph-Ignace Guillotin consegnò al Presidente dell’Assemblea costituente un articolato disegno di legge per la riforma del codice penale. Proponeva tra l’altro che a ogni crimine dovesse corrispondere una stessa punizione, indipendentemente dal rango del responsabile e che, in caso di condanna a morte, per evitare inutili sofferenze, «il reo sarà decapitato; e questo sarà fatto unicamente per mezzo di un meccanismo semplice».

Appaiono evidenti le motivazioni egualitarie e filantropiche della proposta, che derivano dalla filosofia dei Lumi, e segnatamente dall’aureo trattato di Cesare Beccaria. Si trattava però di chiarire quale fosse il meccanismo che la proclamata semplicità rendeva quasi inoffensivo e il buon Guillotin ne descrisse sommariamente i particolari. Trascinato dall’entusiasmo, si rivolse ai Costituenti, facendoli partecipi della sua invenzione: «Signori, con la mia macchina vi farò saltare la testa in un batter d’occhio e non soffrirete affatto! La lama piomba come un fulmine, la testa vola via, il sangue sgorga, l’uomo non è più. A malapena percepisce un soffio d’aria fresca sulla nuca». Non era dato prevedere che l’apostrofe retorica stava configurando per molti dei presenti quella che sarebbe diventata una sgradevole realtà.

L’idea fu per il momento accantonata e prese forza con il contributo di un chirurgo, Antoine Louis, che diede al progetto una tecnica concretezza, e di Tobias Schmidt, un fabbricante di clavicembali, che costruì ad arte la «macchina decollatrice». A questa restò tuttavia impresso il nome del suo primo ideatore, nonostante il disagio e il pentimento che lo accompagneranno per tutta la vita.

La ghigliottina, verniciata di rosso, fu inaugurata il 25 aprile 1792 a Place de Grève e la cavia - cosa per noi stupefacente - fu un ladruncolo recidivo. Era l’avvio di una pratica nefanda che, a ritmo sempre più sostenuto, si estese dalla criminalità comune ai nemici veri o presunti della Rivoluzione, alle semplici vittime di delazioni e sospetti. La «vedova» (uno dei tanti appellativi dovuto al fatto che si ergeva isolata sul patibolo, «altera come una donna sola») avrebbe provocato, in un crescendo di odio parossistico, una cifra oscillante tra i 15 e i 25 mila morti. Veniva così disonorata la Rivoluzione, contraddetta la nobiltà originaria dei suoi principi e oscurati i suoi indiscutibili benefici. Fino a quando la mostruosa, fulminea efficienza della repressione provocò nausea e ripudio, ritorcendosi contro i più radicali fautori.

E’ una vicenda che ci viene raccontata da Antonio Castronuovo in La vedova allegra. Storia della ghigliottina (Stampa alternativa, 2009).

Castronuovo registra fra le altre singolarità il pedagogismo indotto dallo strumento infernale. Il Consiglio Generale di Arras, fu costretto a sequestrare dei macabri giocattoli con cui i bambini mozzavano le teste di passeri e topi. E ci furono dame che ghigliottinavano pupazzetti con il volto aborrito di Robespierre e di Fouquier-Tinville, dai quali colava un sangue fittizio e profumato, buono per umettare il fazzoletto e il collo delle gentili esecutrici. Sorprendente poi la lunga disputa sorta in ambito accademico sul comportamento delle teste mozzate, se continuassero momentaneamente a vivere, se i condannati avessero la percezione di assistere alla propria morte.

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