Il razzismo non fu fattore marginale e «improprio» nella storia italiana del '900, ma elemento essenziale e costitutivo dell'ideologia fascista e della sua politica. Nel mito della «purezza bianca» si intrecciano oppressione colonialista e antisemitismo.
*****
Da dove nacque la legislazione antisemita per mezzo della quale, a partire dal 5 settembre 1938, lo Stato italiano incardinò nel proprio ordinamento misure normative tese alla sistematica discriminazione e persecuzione dei cittadini di «razza» e religione ebraica? Questa è una domanda cruciale - forse la domanda-chiave - nella querelle sui caratteri del fascismo e sul suo ruolo nella storia italiana. Chi vuole ridurlo a parentesi (a incidente della storia) e sotto sotto riabilitarlo, ha la risposta pronta: le nostre leggi «razziali» (che sarebbe buona norma di igiene linguistica chiamare semplicemente razziste) furono un tributo pagato obtorto collo all'alleato tedesco. O un «gesto d'amicizia verso la Germania e Hitler», come volle graziosamente definirle Renzo De Felice. Erano, di per sé, un corpo estraneo all'indole del Paese e dello stesso regime. La loro promulgazione fu un fulmine a ciel sereno che rovinò un idillio. Sicché, cancellata questa patologia, eradicato il corpo estraneo, nulla vieta di immaginarsi un fascismo bonario e mite, che - senza l'improvvida svista dell'alleanza col nazismo - avrebbe potuto traghettarci indenni al di là della catastrofe bellica.
La mitologia dell'estraneità del razzismo è un architrave del revisionismo post e filo-fascista. Non va sottovalutata, andrebbe confutata in radice. Ma è un mito tenace, alimentato da quella tenerezza per noi stessi (noi, per natura «brava gente») che fonda il peculiare eccezionalismo italiano. A differenza degli altri, noi saremmo per grazia di dio refrattari al razzismo. Allora andiamo a vedere come stanno le cose, richiamando telegraficamente il contesto organico in cui il razzismo antiebraico dello Stato fascista prese forma e si sviluppò.
La storia della nazione italiana non è affatto diversa da quella degli altri Paesi europei. Anche da noi la costruzione della nazione (della tradizione, dell'identità, dell'ordine politico) si è compiuta strutturando gerarchie. E anche da noi - come intuì tempo fa Léon Poliakov (per non parlare di Antonio Gramsci) e come una più giovane storiografia (Banti, Bonavita, Gabrielli, Labanca, Nani) viene da anni documentando - il razzismo ha costituito, a tal fine, una risorsa strategica. Tanto sul versante interno (inferiorizzando i soggetti marginali o più deboli: le donne e gli omosessuali, i meridionali, i malati e i «devianti», gli «zingari» e, appunto, gli ebrei), quanto sul versante esterno (teorizzando l'inferiorità fisica e psichica di africani e slavi). Tra tanti padri della patria celebrati dall'oleografia qualche considerazione meriterebbe anche un Cesare Lombroso, vista l'influenza esercitata sul discorso pubblico per tutta la seconda metà dell'Ottocento. E un posticino nel pantheon andrebbe riservato anche al generale Graziani, indomito eroe di tante epopee dalla Libia a Sidi-el-Barrani, passando per la Cirenaica e la Tripolitania.
Insomma, il razzismo è stato un fattore costituente della nostra storia nazionale, e il fascismo (in Italia come, mutatis mutandis, in Germania) si colloca ovviamente in questo solco. Al tempo stesso però il fascismo innova. È coerente con i precedenti, ma determina anche un salto di qualità. Si può dire che, da corollario nella costruzione delle società, la gerarchia diviene, nel fascismo, l'essenza della relazione sociale e della sintassi politica interna e internazionale. Tutto - a cominciare dall'idea del sé individuale e collettivo - ruota intorno a rapporti gerarchici e si definisce per logiche di subordinazione. Per questo, lungi dall'essere un accidente, il razzismo è l'anima stessa della concezione fascista della politica. Per questo il fascismo produce, lungo tutto l'arco della sua esistenza, antropologie razziste. E per questo, finalmente, il fascismo trasforma il razzismo da semplice dato di fatto in cardine giuridico dell'ordine politico-sociale, conferendo forma di legge alle gerarchie antropologiche. Nasce così, per forza di cose, il razzismo di Stato, culmine e sanzione formale di quella «biopolitica» che rappresenta uno dei caratteri salienti della matura modernità occidentale.
Torniamo così alla legislazione razzista promulgata dall'Italia fascista. Posto che essa non fu né frutto di errori né un tenero «gesto d'amicizia» nei confronti di alcuno, c'è un altro mito che va sfatato, non meno pernicioso di questo. Si parla in genere delle sole leggi antiebraiche, ma così si cancella un pezzo di storia e si rischia di portare nuova farina al mulino revisionista.
La verità è che le leggi contro gli ebrei non furono un'infamia isolata né la prima espressione del razzismo ufficiale del regime. Oltre un anno prima del settembre del '38 - precisamente settant'anni fa, il 19 aprile 1937 - l'Italia aveva emanato il primo di tre provvedimenti (gli altri seguirono nel giugno del '39 e nel maggio del '40) che vietarono le mescolanze «razziali» tra italiani e africani e sancirono l'estraneità dei «meticci» alla nostra cittadinanza. Come emerge con sempre maggiore chiarezza dalla ricerca storica (Collotti, Maiocchi, Sarfatti), molte caratteristiche, a cominciare dal connotato biologico del razzismo fascista, accomunano l'insieme di queste leggi, che costituiscono un corpus unitario sia in relazione alla logica dei provvedimenti, sia riguardo alla loro finalità.
Tra le leggi antiebraiche e quelle contro i popoli delle colonie si instaurò un nesso sinergico in forza del quale l'inferiorizzazione dei neri fornì modelli e giustificazioni alla discriminazione degli ebrei e questa a sua volta diede impulso alle pratiche persecutorie del razzismo coloniale. Si parlava contro i neri intendendo parlare degli ebrei e viceversa. E non fu certo un caso che dopo il '38 la pubblicistica del razzismo coloniale conobbe uno straordinario incremento quantitativo e qualitativo.
Ma se questo è vero, allora dinanzi a noi si profila un compito, insieme culturale e politico, non più eludibile. Si tratta di por mano a una ricostruzione unitaria della storia del razzismo italiano. E alla sua collocazione - fuori da e contro ogni eccezionalismo autoassolutorio - nel più vasto mosaico della storia del razzismo europeo (occidentale). Dire che il '38 cominciò nel '37 e che il '37-38 affondava le radici nella costruzione razzista della nostra identità nazionale non è solo un obbligo di verità sul piano storico.
È anche il presupposto necessario del risarcimento morale dovuto indistintamente a tutte le vittime del nostro razzismo nazionale.
Nessun commento:
Posta un commento