Premessa
Un bell’articolo di Gianluca Gabrielli, da “il manifesto” del 20 aprile 2007, ci illustra la legislazione coloniale razzista che il regime fascista adottò a partire dal 1937 con lo scopo di combattere il “madamato” e il “meticciato”. Ci mostra come quelle leggi si inseriscano in una precisa tradizione di “superiore prestigio degli italiani” già presente da tempo nelle colonie che il fascismo ereditò dal periodo liberale. C’è un passaggio dell’articolo che mi ha indotto ad una riflessione, quello relativo alla censura del romanzo Sambadù, un amore negro, opera di Mura, una concorrente di Liala nella stesura di romanzi d’amore avventuroso, esotico e contrastato. Mi sono detto: “Forse qualche anticorpo all’infezione razzista lo si trova dove meno lo si aspetta”; e mi sono ricordato delle mie amate canzonette. Di Faccetta nera, innanzitutto, e delle sue tre versioni.
Nel 1935, mentre si preparavano le operazioni militari contro l’Abissinia, i giornali pubblicavano notizie sulla schiavitù, cui sarebbero state sottoposte non poche giovani africane, vendute dalle stesse famiglie. Circolavano opuscoletti di missionari cattolici che rendevano la cosa ancora più credibile. Tutto era considerato utile a giustificare l’aggressione imminente.
La leggenda vuole che in questo clima un verseggiatore dialettale, Giuseppe Micheli, scriva in romanesco un testo con l’intenzione di presentarlo al concorso che si tiene ogni anno a Roma in occasione della Festa di San Giovanni. Non se ne fece nulla, ma qualche tempo dopo la canzone – musicata da Mario Ruccione – fu cantata al teatro Capranica da Carlo Buti. Seguirono subito dopo altre interpretazioni e, attraverso la radio, la diffusione e il successo nazionale.
Che le cose siano andate esattamente così non è affatto certo. Nel volumetto Il Duce e il fascismo nei canti dialettali d’Italia, una raccolta che Francesco Fichera pubblicò nel 1937, si può leggere infatti: “Faccetta nera, una canzone che ha avuto momenti di fervore nazionale e ha destato tra le folle il più sincero entusiasmo è diventata, purtroppo, argomento di lite fra gli autori essendo state insinuate grandi accuse di plagio”.
Come che sia, il testo romanesco venne trasposto nell’idioma nazionale con qualche modesto rimaneggiamento di carattere politico. Due le differenze importanti. Dove la versione romanesca fa “La legge nostra è schiavitù d’amore,/ ma libertà de vita e de penziere” in quella italiana si canta “La legge nostra è schiavitù d'amore,/ il nostro motto è libertà e dovere”. Nella stessa strofe salta il riferimento ad Adua. Pare che Mussolini in persona avesse ordinato di parlare il meno possibile di quell’antica sconfitta, almeno fino alla riconquista della storica località, che sarebbe stata celebrata da un’apposita canzonetta (“Adua è liberata, /è ritornata a noi…”).
Ma anche nel nuovo testo Faccetta nera sarebbe ben presto diventata “politicamente scorretta”. La bella abissina può essere liberata dalle antiche forme di schiavitù, ma non si sogni neppure di diventare “romana” e di indossare la “camicia nera” nelle sfilate; dovrà servire i nuovi padroni. Così nel 1936, prima delle leggi razziste sul madamismo e sul meticciato viene dato da cantare a Buti e pubblicato dall’editore Campi di Foligno, un nuovo testo “purgato”. L’edizione a stampa spiega che si tratta del testo ufficiale e che è stato consegnato «alla Procura del Re ai sensi della legge sulla Stampa del 1932». Ma l’operazione non va in porto. Con le nuove parole Faccetta nera non piace ai radioascoltatori che inviano all’Eiar lettere di protesta. Il Minculpop consiglierà ai programmisti di diradarne l’emissione, ma accetterà che sia alla radio che nei fonografi prevalga il vecchio testo che invita a fraternizzare cameratescamente.
Un scarto dal razzismo ufficiale ho avvertito anche in un’altra canzoncina di quel tempo che ho sempre trovato molto gustosa, Zikipaki Zikipù. Ho a lungo creduto che ne fosse autore Rodolfo De Angelis, specializzato in canzoncine satiriche da varietà e cafe-chantant. E invece no: la musica è di Vittorio Mascheroni e il testo di quel Peppino Mendes che in altre canzoni esalta il ritorno ai campi e la campagna demografica del regime (vedi Reginella campagnola). Zikipaki Zikipù non si svolge in una italica colonia, ma addirittura in India, dove l’italiano non ci sta a pensar su e si porta sotto un albero una bella indù. Aggiunge: “meglio un figlio mezzo indiano che… senza eredi”. L'italica virilità e la produzione di figli per la patria (“otto milioni di baionette”) per un po’ la vincono sulla “guerra al meticciato”. Solo per un po’.
Per gli appassionati ho posposto all’articolo di Gabrielli i tre testi di Faccetta Nera e quello di Zikipaki Zikipù . Sul tema suggerisco un link in questo stesso blog: http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2009/12/la-parola-di-eugenio-vitarelli.html
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Apartheid coloniale in lingua fascista
Gianluca Gabrielli - il Manifesto 20 aprile 2007
Il 19 aprile 1937 segna una data importante per la storia del razzismo fascista. In quel giorno infatti fu varato il Regio Decreto n. 880, quella che possiamo definire la prima legge dichiaratamente razzista del regime.
Composta da un unico articolo, essa puniva con la reclusione da uno a cinque anni di carcere il bianco sorpreso in «relazione di indole coniugale» con una donna africana. Nei documenti d'accompagnamento e nella pubblicistica che accompagnò questa svolta della politica indigena si
legge che la norma intendeva colpire chi si fosse macchiato del delitto biologico di «inquinare la razza» facendo nascere i cosiddetti «meticci» e del delitto morale di «elevare» l'indigena al proprio livello perdendo quindi il prestigio che gli derivava dall'appartenenza alla «razza superiore». Per capire a pieno la portata di questa svolta è però necessario andare indietro di qualche anno.
Nelle colonie che il fascismo ereditò dal periodo liberale, il razzismo era già uno degli strumenti simbolici funzionanti per la gestione del dominio della comunità bianca e per assicurare il riconoscimento di quello che veniva definito «superiore prestigio degli italiani». Si trattava di
un razzismo sociale, diffuso, implicito nelle pratiche d'amministrazione della colonia. Nella società coloniale, infatti, erano operanti una serie di dispositivi - i quartieri divisi etnicamente, le scuole per la popolazione indigena separate da quelle per gli italiani e limitate ai livelli più bassi di istruzione, l'autorità limitata dei poliziotti africani verso i bianchi - che ribadivano una «linea del colore» imposta da quarant'anni di occupazione e ormai percepita come naturale dalle stesse popolazioni indigene. In questo contesto si era diffusa la pratica - insieme razzista e sessista - del «madamato»: la consuetudine dei bianchi di affittare ragazze indigene per il periodo di permanenza in colonia come serve domestiche e sessuali. I figli generati da queste unioni, definiti «meticci» e considerati incroci razziali, erano in maggioranza abbandonati alla madre indigena al momento del ritorno del padre bianco in Italia. Solo per una piccola minoranza di essi, riconosciuta dai padri o educata dai missionari alla cultura italiana, rimanevano aperte limitate finestre di concessione della cittadinanzaitaliana, a tutela di quella parte di «sangue bianco» che in questi casi aveva potuto mettere radici.
Identità di regime
Con l'approssimarsi della guerra di conquista dell'Etiopia questa tipologia di razzismo divenne inadeguata ai propositi del regime. Essa infatti garantiva la gerarchia tra le due comunità ma permetteva anche una contiguità e una serie di contatti tra dominatori e dominati tali da rappresentare un problema nella nuova ottica di presenza massiccia di italiani al seguito della guerra e dei progetti di popolamento. Così Mussolini e i gerarchi, parallelamente alla preparazione dell'invasione dell'Etiopia, misero a punto una politica razzista diversa, rigidamemente separatista oltre che gerarchizzante. Inoltre tale politica fu progressivamente adottata come fattore identitario del regime e venne propagandata con forza quale tratto caratteristico della colonizzazione fascista che quindi si autocelebrava come avanguardia dell'affermazione della «civiltà bianca» in Africa. I primi segnali di questo mutamento di indirizzo risalgono al 1934, quando il sequestro del romanzo Sambadù, un amore negro che narrava un amore interrazziale fu anche l'occasione per l'istituzione della censura preventiva. Da quel momento i passi si succedettero rapidi: nel 1935 Mussolini chiese d'urgenza un piano d'azione per evitare che, per effetto della colonizzazione, si potesse formare una «generazione di mulatti in Africa Orientale». Quindi, subito dopo la presa di Addis Abeba, furono emesse le nuove Direttive per assicurare una «netta separazione tra le due razze bianca e nera».Diventavano così operanti le disposizioni per la divisione delle abitazioni e dei locali pubblici, capisaldi di un apartheid fascista che, nonostante le difficoltà logistiche ed economiche, si sarebbe venuto progressivamente delineando nei cinque anni di dominazione imperiale. Nello stesso testo era affrontato anche l'altro grande nucleo della nuova politica fascista della razza, quello ostile agli incroci, con gli «ordini del Duce» contro il madamato: obbligo per gli ammogliati di portare la famiglia in colonia, provvedimenti di polizia contro i nazionali che convivessero con donne indigene e allestimento di case di tolleranza riservate agli italiani con donne di razza bianca. Fu nel 1937, in occasione del varo del decreto contro le unioni miste, che questa politica razziale, fino ad allora cresciuta tramite direttive riservate e ordinanze, acquisì forza di legge e divenne propaganda di regime.
La virilità bianca
La repressione del madamato attraverso la legge del 1937 ebbe la massima applicazione nel 1938, proprio in corrispondenza con l'emanazione della normativa antisemita. Un'ondata di denunce e arresti colpì le relazioni che erano continuate in segreto. Si giunse all'estremo: anche la prostituzione, generalmente considerata lecita come canale di sfogo fisiologico della «naturale virilità dell'uomo bianco fascista», diveniva punibile se accompagnata da gesti d'umanità o tenerezza, come procurare medicine, fare doni, mangiare allo stesso tavolo. Negli anni successivi,mentre continuava la riorganizzazione degli spazi sociali secondo il principio della segregazione, altre due leggi concorsero a completare l'architettura legislativa del razzismo coloniale di stato. La legge 1004 riprese le precedenti disposizioni che, insieme ad altri inediti reati, furono sussunte sotto il nuovo e ambiguo concetto giuridico di «prestigio di razza». Nel 1940 la legge 820 decretò il destino dei cosiddetti meticci: furono associati alla comunità indigena. La loro demonizzazione come «dolorosa piaga, sorgente di infelici e di spostati, causa di irrequietudini e di debolezze», «ramo anormale della famiglia umana» era cresciuta riprendendo stereotipi maturati anche nel corso della campagna antiebraica. Con la condanna del «sangue africano» presente nel meticcio e fonte di un possibile processo di degenerazione si concludeva l'evoluzione del razzismo fascista in colonia. Dì lì a poco, la perdita delle colonie nel corso del conflitto mondiale pose fine a questa pagina tra le più rimosse e più turpi della storia nazionale.
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Le tre versioni di Faccetta Nera
1. Il testo romanesco
Si mo’ dall’artipiano guardi er mare
moretta che sei schiava fra le schiave
vedrai come in un sogno tante nave
e un tricolore sventola’ pe’ te
Ritornello
Faccetta nera
bell’abissina
aspetta e spera
che già l’ora s’avvicina
Quanno staremo
vicino a te
noi te daremo
un’antra legge e un antro Re!
-
La legge nostra è schiavitù d’amore
ma libertà de vita e de penziere.
Vendicheremo noi, camicie nere
li morti d’Adua e libberamo a te.
Ritornello
Faccetta nera etc.
-
Faccetta nera piccola abissina
te porteremo a Roma, libberata
dar sole nostro tu sarai baciata
starai in camicia nera pure te/
Ritornello
Faccetta nera
sarai romana
e pe’ bandiera
tu c’avrai quella italiana
Noi marceremo
insieme a te
e sfileremo
avanti al Duce e avanti al Re!»
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2. Il primo testo in italiano
Se tu dall'altipiano guardi il mare,
Moretta che sei schiava fra gli schiavi,
Vedrai come in un sogno tante navi
E un tricolore sventolar per te.
Ritornello
Faccetta nera,
Bell'abissina
Aspetta e spera
Che già l'ora si avvicina!
quando saremo
Insieme a te,
noi ti daremo
Un'altra legge e un altro Re.
-
La legge nostra è schiavitù d'amore,
il nostro motto è libertà e dovere,
vendicheremo noi camicie nere,
Gli eroi caduti liberando te!
Ritornello
Faccetta nera, etc.
Faccetta nera, piccola abissina,
ti porteremo a Roma, liberata.
Dal sole nostro tu sarai baciata,
Sarai in Camicia Nera pure tu.
Ritornello
Faccetta nera,
Sarai Romana
La tua bandiera
Sarà sol quella italiana!
Noi marceremo
Insieme a te
E sfileremo avanti
al Duce e avanti al Re
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3. Il testo italiano purgato e rimaneggiato
Se tu dalle ambe or guardi verso il mare
moretta ch’eri schiava tra gli schiavi
vedrai come in un sogno vele e navi
e un tricolor che sventola per te.
Ritornello
Faccetta nera
ch’eri abissina/
aspetta e spera
si cantò l’ora è vicina
Or che l’Italia
veglia su te
noi ti portiamo
un’altra legge e un vero Re!
-
La legge nostra è libertà o piccina
e ti ha recata una parola umana
avrai la casa e il pane o morettina
e lieta potrai vivere anche te.
Ritornello
Faccetta nera
ch’eri abissina
aspetta e spera si cantò
l’ora è vicina.
Or che l’Italia
veglia su te
avrai tu pure a Imperatore
il nostro Re.
-
Faccetta nera il sogno s’è avverato
non sei più schiava e più non lo sarai
dal ciel d’Italia, libera, vedrai
il sol di Roma splendere su te
Ritornello
Faccetta nera
ch’eri abissina
tornò l’Impero
ed or l’Italia è a te vicina.
La nostra Patria
veglia su te
e lo giuriamo
al nostro Duce e al nostro Re.
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Il testo di Zikipaki Zikipù
Zikipaki era nata fra gli indù,
era figlia del gran capo di laggiù.
Bella bajadera, piccola e leggera,
somigliava al padre Zikipù.
Ma un bel giorno, non so proprio come fu,
Zikipaki s’è trovata a tu per tu
con un tipo strano, era un italiano:
Zikipaki non ci vide più.
Disse: “Tu, proprio tu,
o mi baci oppur lo dico a Zikipù”.
-
Ah, Zikipaki o Zikipù,
l’italiano non ci stette a pensar su.
Se la prese per la mano,
la condusse più lontano
sotto un albero, laggiù:
“Dimmi il tuo nome, o bella indù”.
“Zikipaki sono e non scordarlo più!”.
E per meglio ricordar,
tosto lui si mise a far
“Zikipaki, Zikipaki, Zikipù!”.
-
L’italiano spesso si recò laggiù
a trovar la bella figlia dell’indù.
Ma l’ardore passa, lei divenne grassa,
Zikipaki lui non vide più.
Ma in sua vece un giorno venne un grosso indù
con un bel marmocchio di color caucciù.
“Questo signorino esser tuo bambino.
Presto, fila e non tornare più!”.
E il caucciù, come fu,
somigliava tutto al nonno Zikipù.
-
Ah, Ziki-Paki o Ziki-Pu,
l’italiano non ci stette a pensar su.
Se lo prese piano piano,
lo portò lontan lontano
al paese suo laggiù.
Appena giunto, disse:“Orsù,
dopo tutto è un italiano che c’è in più”.
E a chi stava a domandar
rispondeva: “Fu per far
Zikipaki, Zikipaki, Zikipù!”.
-
Meglio un bimbo mezzo indiano
che passar la vita invano
senza eredi su per giù.
E, se la moda di lassù,
la nazione a popolar non pensa più
si può sempre ricordar
la canzone che sul far
“Zikipaki, Zikipaki, Zikipù”!
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