Sauerwald, nazista e squadrista, nel ’38 favorì la fuga del padre della psicanalisi.
In un libro inglese una puntigliosa ricostruzione della controversa vicenda.
Il dottor Anton Sauerwald non era ignoto ai cultori di Sigmund Freud, almeno da quando sono stati pubblicati in Inghilterra, all’inizio degli anni 90, i diari e gli appunti privati stesi dal padre della psicoanalisi negli ultimi anni, fino alla morte avvenuta a Londra nel settembre del ‘39. Ma era una figura molto controversa. Un nazista, medico e squadrista, uno con il grilletto facile e forse, come scrisse Max Schur, il medico curante di Freud, anche un nazista affetto da senso di colpa. Dopo l’irruzione delle truppe tedesche in Austria, era diventato il custode e il liquidatore della «Società psicoanalitica», il quartier generale del verbo freudiano a Vienna. Finita la guerra fu processato, e Anna Freud testimoniò in suo favore. Poi calò il sipario, e il dubbio restò: era stato un angelo o un diavolo custode?
Ora, dall’Inghilterra, arriva la risposta di uno storico, che ha pubblicato uno studio assai particolareggiato su quei giorni. In The escape of Sigmund Freud (La fuga di Sigmund Freud) David Cohen ricostruisce ora per ora il momento più drammatico del piccolo clan viennese, dando ampio risalto alla figura di Sauerwald. Con ottimi motivi: il personaggio è piuttosto interessante. Nazista della prima ora, aveva studiato medicina, legge e chimica, e all’Università di Vienna era stato allievo di un docente, Josef Herzig, molto legato a Freud. Il suo compito, nel ‘38, era semplice: doveva sovraintendere al passaggio della Società psicoanalitica in un nuovo istituto centrale voluto dal nazismo, escludendone naturalmente tutti i membri ebrei; e doveva anche occuparsi dei beni dei Freud, ormai notevoli dato il successo della psicoanalisi, che in base alle leggi naziste erano considerati illecitamente acquisiti.
In realtà, Anton Sauerwald si mise a studiare le opere del maestro, e secondo Cohen quei testi ebbero su di lui un grande impatto. Cominciò così un delicatissimo doppio gioco: il funzionario nazista protesse gli affari della famiglia Freud, tenendo segreti ai suoi superiori i fondi depositati all’estero, e soprattutto ne favorì la fuga. Fu lui a agevolare le pratiche per i visti d’espatrio, ma anche a far trasferire segretamente - con l’aiuto di un complice - tutti i libri nei sotterranei della Biblioteca nazionale austriaca, dove vennero accuratamente nascosti. Il nazista era diventato un adepto. Quando Freud, malato e infelice, salì sull’Oriente Express con destinazione Londra (insieme con la moglie Martha, la figlia Anna, la domestica Paula, il chow-chow Lün e la dottoressa Josephine Stross in sostituzione di Schur, ricoverato per un attacco di appendicite), sapeva di dovergli molto.
Molto ma non forse tutto: l’espatrio era stato reso possibile da una mobilitazione internazionale, di cui si era fatta capofila la principessa Marie Bonaparte con l’ambasciatore americano W. C. Bullit, ex paziente di Freud e amico personale di Roosevelt. Gli stessi capi del nazismo non erano concordi sulla linea da seguire: Göbbels e Himmler erano accaniti nemici di quella scienza «giudaica» inventata a Vienna, ma Göring aveva posizioni più moderate. In ogni caso, Sauerwald riuscì a condurre il suo (doppio) gioco, a diventare lo snodo decisivo del salvataggio e portare a casa la pelle. Per molti anni fu ritenuto l’uomo che aveva derubato Freud: Cohen è convinto che ci abbia guadagnato più di qualche spicciolo, ma senza esagerare. La famiglia, certo, non gliene volle. Oltretutto continuò a frequentare le sorelle di Freud rimaste in Austria, senza riuscire a impedire che fossero deportate.
Dopo la guerra venne arrestato, ironia della sorte, da Harry Freud, un nipote diventato ufficiale dell’esercito Usa. E la cugina, sollecitata dalla moglie di Sauerwald, gli scrisse subito, per chiarire la situazione: «Gli dobbiamo la vita e la libertà. Senza di lui non ce l’avremmo mai fatta».
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