12.2.10

La morte di Bob Kennedy. Un ricordo.


I primi di giugno del 1968, con il mio amico Lillo Guarnieri (ma lui preferiva Guarneri), detto “lu Filippinu”, eravamo a Palermo a preparare gli esami di Italiano 2. Meno preparato di lui, io li avrei sostenuti con successo (un 28 che, all’epoca, era un voto assai buono); lui invece, in altri campi assai spregiudicato, se non aveva preparato tutto ben bene, non si presentava agli esami. Era bello comunque leggere e discutere Dante di notte e poi uscire in via Roma e cantare “Le strade di notte” di Gaber prima di rientrare da Sabatino, il nostro pensionante, economico e tollerante.

Le ultime fiammate di “movimento” a Lettere e Filosofia si erano spente qualche settimana prima con il tentativo vano e inglorioso di Gianni Puglisi di agitare il “caso Miserendino” o, se preferite, il “caso Gerbasi”. Per riprendere il filo bisognava ormai attendere l'anno a venire. Intanto le elezioni politiche del 19 maggio erano state archiviate con l’avanzata del Pci e del Psiup ed era già in corso la sessione estiva di esami. Tutti (o quasi) preparavano materie, tesi e quant’altro.

E tuttavia la notizia arrivata il 6 giugno che anche il secondo dei Kennedy, il simpatico Bobby, era stato ucciso, eccitò la voglia di “manifestare”, in noi come in alcune decine di nostri compagni di studi. L’occasione per scendere in piazza la dava un comizio tempestivamente convocato dalle Federazioni del Pci e del Psiup al Politeama, a piazza Castelnuovo. Quale sentimento, quale proposta, quale rivendicazione si dovesse “manifestare” non era affatto chiaro.

Una rappresentazione di comodo qualifica “senza se e senza ma” come “antiamericano” il Sessantotto italiano. Non c’è dubbio che tutti o quasi tutti quelli che vi partecipavano erano contro la guerra americana nel Vietnam e contro l’establishment imperialista di quel paese, ma nel nostro Sessantotto palermitano non c’erano ancora grosse stratificazioni ideologiche e il gridare “Johnson boia” non impediva ai più di simpatizzare per un’altra America i cui confini erano assai dilatati. Ci potevano tranquillamente entrare, insieme, i “Musulmani neri” e Martin Luther King, i guerriglieri urbani e i “figli dei fiori”, gli studenti del Sds e, con qualche distinguo, perfino i Kennedy.

La manifestazione non riuscì granché bene. Eravamo trecento, quattrocento al massimo: studenti e piccola borghesia intellettuale (oggi direbbero “ceti medi riflessivi”). Non mi ricordo chi fece il comizio per il Pci (forse Occhetto che in quei giorni debuttava come segretario di federazione, ma se non lo ricordo deve essere stato meno brillante del solito). Per il Psiup parlò Lino Motta. Di sessantottini della nostra facoltà ce n’erano molti: della Fgci, del circolo Labriola, maoisti, hippie, progressisti generici. Lillo aveva preparato un cartello assai bello a vedersi. Aveva una grande mano per il disegno e tante idee geniali. Credo che, se si fosse impegnato e avesse trovato le giuste entrature, sarebbe divenuto un grande pubblicitario o almeno un grafico di valore. Per quel pomeriggio aveva lavorato con i pennarelli su colori e caratteri e la scritta era assai ben visibile. Lo slogan che avevamo scelto era “America mi fai pena, America mi fai paura”. Probabilmente non valeva molto, ma bene esprimeva il nostro sgomento verso un paese impegnato in una guerra di aggressione, in cui non mancavano rigurgiti razzisti e in cui era ricorrente l’omicidio politico come strumento per liquidare tutte le figure portatrici di novità, di libertà. Il grande cartello non aveva bastone e lo mostravamo orgogliosi tenendolo con una mano, lui da una parte io dall’altra. Ma arrivò Pippo Onnis, un nostro collega dagli occhiali spessissimi, maoista, fortemente ideologizzato, che aveva già letto tanto Marx, Engels, Lenin, Stalin e Mao Tse Tung. Era un vero pozzo di citazioni e noi lo apprezzavamo per la coerenza del suo discorrere oltre che per la rigidità del suo sentire. Il suo maoismo era consapevolmente “giacobinismo”. Il suo modello di rivoluzionario più che Mao era Robespierre. Ci investì con una critica “di principio”: non si deve avere paura dell’imperialismo americano, ci diceva, è “una tigre di carta”, anche se sembra forte. Non ricordo i particolari, ma ce ne disse di cotte e di crude. Ci difendemmo come potevamo e sapevamo e continuammo a mostrare il cartello per tutta la durata della manifestazione, senza cedere ai suoi diktat; ma eravamo anche ammirati per la sua intransigenza.

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