13.2.10

E Stalin disse: "Oggi non si può". Un articolo di Aldo Natoli sulle alternative del dopoguerra (La talpa giovedì 9 ottobre 1986).

Su “la talpa giovedì”, il supplemento libri de “il manifesto” di giovedì 9 ottobre 1986, Aldo Natoli recensiva l’ultimo libro di Paolo Spriano consegnato alla stampe per l’editore Garzanti da qualche mese e intitolato Le passioni di un decennio 1946-1956. L’autore aveva voluto scrivere non un “libro di storia”, ma “per la storia”. Aveva pertanto raccolto alcuni poco noti documenti, studiato alcune particolari questioni, definendo il suo lavoro uno “scavo”, quasi da archeologo, onde potevano scaturire reperti utili alla scrittura della “storia”. Natoli valorizza la ricchezza di suggestioni del libro e l’uso di una documentazione fino ad allora inedita, ma pone tre questioni che a me sembrano ancor oggi nodi da sciogliere per la storia di quel dopoguerra. Dell’articolo (Tre domande su un decennio che durò 11 anni) diffondo qui una parte, quella che mi pare più significativa.


Non è forse un po’ arbitrario fare iniziare il decennio dal 1946, cioè con la fondazione della Repubblica, non è una concessione al luogo comune che si voleva esorcizzare? Infatti, si potrebbe fare l’ipotesi (su cui discutere naturalmente) che a quel momento i giochi fossero in parte già fatti. Talune carte decisive erano state scoperte nel 1945, già subito dopo la Liberazione. Questo è il periodo su cui in particolare bisognerebbe procedere allo “scavo”. Fino a che punto allora il movimento che era uscito vittorioso dalla resistenza subì sconfitte che non erano dovute solo o prevalentemente a un rapporto di forze sfavorevole, ma anche, e in modo decisivo, a una valutazione tattica eccessivamente cauta, dunque sbagliata? Penso alla accelerata liquidazione dei Cln nella primavera avanzata e alla caduta del governo Parri alle soglie dell’inverno. Quelle battaglie furono perdute senza combattere; e non è affatto dimostrato che i dCln si potessero difendere solo con le armi. Su questo “la prospettiva graeca” agitata da Togliatti era una semplificazione del problema: il Congresso del Cln, se mai fosse realmente avvenuto, avrebbe forse potuto liquidare quella minaccia. E d’altro canto che senso aveva continuare a parlare di “democrazia progressiva”, una volta dispersi i Cln che, soli, avrebbero potuto costituirne il supporto di base, diretto? Tante domande, tanti problemi, dice Brecht.

Sempre divagando nel campo del se, si potrebbe fare un discorso analogo per il governo Parri. La data si trova fuori dal decennio delimitato da Spriano, che si limita a dire che fu il minuscolo Partito liberale a farlo cadere. Ma cosa fecero il Pci e il Psi per sostenere Parri, per opporsi alla caduta del governo? E si poteva fare qualcosa? Si doveva? Io penso che si doveva e si poteva, ameno che un’altra prospettiva non fosse stata già adottata dai massimi dirigenti dei partiti di allora. Il discorso torna ad essere: quella valutazione era giusta o sbagliata, lidea che Togliatti si era fatta sulla natura della Dc era giusta o sbagliata? Poiché dal dicembre 1945 quel partito ha governato ininterrottamente su questo paese, queste domande meriterebbero una risposta e non è detto che ssa non possa essere data, abbandonando l’ambito del se e avventurandosi arditamente in quello della storia reale. Nell’attesa chi può dimenticare le pagine dolenti profetiche di Carlo Levi sulle dimissioni di Parri (L’orologio).

Seconda questione: la crisi del 1947 che portò all’esclusione dal governo dei socialisti e dei comunisti. Qui Spriano ha voluto confutare “la leggenda tenacemente alimentata dalle stesse sinistre” che quella crisi sia stata “il frutto di un ordine di oltre Atlantico”, dell’amministrazione Truman. Io penso che era giusto correggere tale semplificazione propagandistica che ebbe allora largo corso. Non fino al punto di sostenere la natura “endogena” di quella crisi con l’aiuto delle testimonianze di Giorgio Amendola e Giulio Andreotti. Beninteso, chi non sa che fi furono potenti fattori endogeni, dal Vaticano a quello che De Gasperi chiamava “il primo partito” della grande borghesia? E’ anche vero, però, che la svolta fu pilotata, preparata, seguita nei dettagli dall’amministrazione Usa in collaborazione con l’ambasciatore Tarchiani, che fu l’infaticabile tessitore delle trame che dovevano portare a quel risultato. Fattori esogeni e fattori endogeni cooperarono assiduamente nel quadro divenuto oramai dominante della guerra freddda internazionale, già in atto dalla seconda metà del 1946. Fuori da ogni deformazione propagandistica, può restare il dubbio su chi avesse il bandolo della matassa? Qui, mi sembra, vi è poco spazio per i se, se non per l’ipotesi assai plausibile che senza iniziativa e l’appoggio “esogeno” il colpo del 1947 difficilmente sarebbe riuscito (non si dimentichi che il 2 giugno 1946 socialisti e comunisti avevano pur avuto la maggioranza relativa dei voti).

La terza questione si riferisce al comportamento di Pietro Secchia quando, alla fine del 1947, a Mosca riferisce a Stalin e a i suoi più vicini collaboratori sulla situazione italiana, giungendo a criticare quello che lui giudicava debolezza ed errori della politica di Togliatti, per sostenere che sarebbe stato possibile riprender l’offensiva, non con l’insurrezione, ma con lotte più incisive e decise. Com’è noto, Stalin respinse la proposta di Secchia: “oggi non si può” disse.

L’interpretazione di questo episodio non è semplice. davvero Secchia puntava a creare le condizioni per una rottura rivoluzionaria? La politica più a lungo termine di Stalin era per allora più fedelmente interpretata dalla moderazione di Togliatti? Di qui le due immagini stereotipate si Secchia, “uomo che amava la lotta armata”; di Togliatti, i doppio petto borghese: L’una e l’altra potrebbero essere false, luoghi comuni sotto i quali bisognerebbe “scavare”. In realtà si potrebbe anche sostenere che Secchia, quando parla a Stalin, non vuole affatto l’insurrezione, ha troppa esperienza in quel “ramo” per abbandonarsi alle illusioni. Vuole puramente e semplicemente la “democrazia progressiva” e questa, come i tre anni precedenti hanno dimostrato, non può procedere che sulla lotta delle masse, anche troppo frenata fino a quel momento. Secchia sarebbe il rappresentante di una via italiana al socialismo condotta anche dal basso, e non solo dall’alto. In questo senso, la sua è una critica di fondo della linea politica praticata da Togliatti. Questi, a sua volta sarebbe l’esatto interprete della strategia di Stalin: lunghi anni di attesa sul terreno della democrazie (borghese, non progressiva, cioè senza risorse) sino al momento in cui l’Urss sarà in condizione di intervenire attivamente, appoggiare e rendere possibile un altro passo avanti della rivoluzione comunista nell’Europa Occidentale.

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