21.2.10

L'articolo della domenica. Fanno come le bagasce; è peggio di Tangentopoli.

Pigghiari primu comu li bagasci è una colorita espressione che, al mio paese natìo e in altri vernacoli siciliani, indica l’abitudine, attribuita peculiarmente alle bagasce, di giocare d’anticipo nelle contese e nei battibecchi, di accusare prima di essere accusate. In questi giorni il Cavaliere Berlusconi ha dimostrato, e non per la prima volta, di avere appreso non si sa dove quest’arte assai bene. Quella di rivoltare la frittata deve averla appresa nelle navi da crociera in cui cantava e aiutava in cucina.

Così, di fronte all’emergere sempre più evidente di un sistema di malversazioni, che ha alla radice l’eliminazione dei controlli in base al principio dell’efficienza e dell’emergenza, contrattacca, chiede pene più dure, propone di cacciare da ogni consesso politico e amministrativo chi abbia subito una condanna definitiva per corruzione. E dice: “Non c’è alcuna Tangentopoli. Ci sono dei casi singoli e li stroncheremo”.

Proviamo a mettere le cose un po’ in ordine. Se per Tangentopoli si intende un sistema centralizzato di “dazioni” in cambio di appalti e commesse, che promana da un qualche nuovo Caf (il celebre trio Craxi, Andreotti e Forlani) e discende a cascata verso tutti i livelli decisionali, credo che il meccanismo in atto oggi non funzioni così; ma sotto alcuni riguardi, se possibile, è ancora peggio, soprattutto perché sulle scelte di spesa delle pubbliche amministrazioni si sono molto allentati i controlli.

Partiamo dal basso, dai Comuni. Il Segretario Comunale era un dipendente dello Stato messo lì ad operare un controllo preventivo di legittimità; oggi è scelto dal Sindaco e dalla giunta e retribuito con emolumenti assai superiori che in passato, è più che altro un tecnico che dispensa buoni consigli a chi lo paga.

Altra grande differenza: in nome della separazione tra politica e amministrazione gli appalti non vengono assegnati da commissioni scelte e composte all’interno di organismi elettivi, ma da funzionari-manager. Essi però devono la nomina, sostanzialmente discrezionale, agli esecutivi politici di cui sono il braccio tecnico. Il risultato è che sindaci e assessori continuano a decidere, ma non compaiono, non si assumono responsabilità.

Ancora: funzioni e servizi pubblici sono stati sovente privatizzati, in altri casi affidati a società miste o anche a società o agenzie interamente pubbliche. La parola d’ordine era “niente politici, gestione manageriale”. Il primo risultato è che i politicanti hanno le mani in pasta due volte: intanto perché scelgono i manager e dopo perché la babele di agenzie e società facilmente diventa il paradiso dei “trombati”. Il secondo risultato è l’opacità: non c'è più il consigliere d’opposizione tignoso e rigoroso che leggendo i bilanci intravede gli sprechi e tutto il resto visto che i conti non sono più a più a sua disposizione se non in termini generalissimi; tutto il resto rientra negli affari riservati dell’agenzia che in autonomia gestisce il servizio. Alla faccia della trasparenza.

Tutto questo favorisce le malversazioni non solo nella forma di tangenti estorte a impresari e fornitori, ma anche nella forma più raffinata di un ingresso diretto negli affari pubblico-privati di politici e funzionari attraverso società di comodo e partecipazioni incrociate. Ne viene fuori un nepotismo che fa impallidire quello dei papi re e che talora non è neppure illegale. Qualcuno ricorderà lo scandaletto calabro (2005) dell’assessore rifondarolo, peraltro magistrato, che aveva scelto come assistente la moglie. Gli avevano detto: “scegli una persona di tua fiducia”; e lui lo aveva fatto: “chi se non mia moglie?”. Seppure legale, la cosa non fu considerata di buon gusto (le assistenti possono essere amanti, ma le mogli non vanno bene); eppure, tutto sommato, riguardava poche migliaia di euro. Oggi è diventato normale che mogli, sorelle e cognate di sindaci e assessori siano messe a capo di società che "lavorano" con il pubblico e partecipano a importanti aste, appalti e licitazioni. Quando non è permesso dalle leggi entrare in rapporto diretto con l’amministrazione del congiunto, c’è sempre la possibilità dello scambio di coppia: io do un appalto a tua moglie, tu dai una commessa a mio marito.

Ci sono poi le cosiddette “finanze di progetto” che moltiplicano e diversificano le forme di commistione tra potere pubblico e affarismo.

Ciò che vale per i Comuni, vale per le Province (che Berlusconi disse di volere abolire e che invece si tiene strette) e per le Regioni. Lì gli appalti più grossi sono quelli sanitari, che riguardano una vasta gamma di interessi e dove i guadagni sono cospicui, e perciò gl’insediamenti affaristici locali si collegano con grandi società presenti quasi dappertutto.

Per lo Stato centrale, le commesse ministeriali, gli appalti di livello nazionale valgono, in grande, le cose che dicevamo per i Comuni. C’è una aggiunta da fare per i grandi lavori, per i quali è invalso l’uso di individuare un general advisor. Potremmo definirlo approssimativamente una sorta di appaltatore degli appalti, a cui l’insieme dei committenti affida il compito di seguire tutti gli aspetti della realizzazione di un’opera. E’ un meccanismo di ulteriore opacizzazione della spesa.

Il principio ispiratore di tutte queste norme è, in astratto, l’efficienza: eliminare i controlli (i cosiddetti lacci e lacciuoli), ridurre le possibilità di dibattito politico e di opposizione popolare (i cosiddetti scassacazzi), fare presto. Il risultato maggiore è la discrezionalità assoluta del "decisore".

La conseguenza ulteriore è un meccanismo diffuso di commistione tra pubblico e privato che produce a iosa conflitti di interesse e che, forse, non è “tecnicamente” tangente (non c’è la “dazione” di denaro cara al Di Pietro di Mani pulite), ma è comunque corruzione, infezione che si diffonde.

Il Berlusca dice: “Non c’è Tangentopoli, solo casi isolati”; anche il Craxi, del resto, disse: “Chiesa è un mariuolo”. Io ho la convinzione che quel che accade oggi sia come Tangentopoli e peggio di Tangentopoli.

E’ come Tangentopoli nella quantità. I calcoli induttivi fatti su campioni significativi di quanto gli acquisti, le commesse, i lavori pubblici alle amministrazioni pubbliche italiane costino di più rispetto a situazioni paragonabili nel privato o all’estero, al netto degli sprechi burocratici, portano a non meno di 80 miliardi di euro, un dato analogo a quello cui arrivava, alla vigilia di Tangentopoli, l’economista Giuliano Cazzola in un suo famoso libretto su quanto ci costava la corruzione. E’ peggio di Tangentopoli perché il potere politico, come la Semiramide dantesca, “libito fe’ licito in sua legge”, ha cioè legalizzato il capriccio del potente. Il processo legislativo e normativo di riduzione dei controlli preventivi ha reso tutto più confuso, una “marmellata” - si è detto.

La costruzione di codesta legislazione e delle prassi correlate peraltro non è esclusiva della destra, ma ampiamente “bipartisan”; quello che c’è di nuovo nell’ultimo Berlusconi è l’uso sistematico dell’emergenza come metodo di governo.

Egli si rende subito conto dalle “emergenze” lasciategli in carico da Prodi - Alitalia e rifiuti a Napoli - che ne può ricavare un doppio vantaggio: da una parte presentarsi come l’uomo del “fare” contro un centrosinistra che litiga e ruba senza nulla concludere; dall'altra gestire il denaro pubblico senza troppi controlli e senza troppe lamentele. Il caso Alitalia è di scuola: un vero e proprio sperpero per un obiettivo fasullo - il mantenimento fittizio della compagnia di bandiera - e per uno vero - il corteggiamento della Confindustria. Il tutto tra gli applausi della folla. A Napoli ad essere applaudita è la soluzione militare, che occulta i costi economici come quelli ambientali e sanitari. La tentazione di trasformare tutto in emergenza si fa forte con il montare della crisi economica già prima del terremoto aquilano; ancora di più dopo. Emergenza diventano la Tav, le centrali nucleari, la celebrazione dell’Unità d’Italia, il G8, le carceri eccetera eccetera, talvolta a scapito di emergenze vere (lo stato del suolo); attraverso la proclamazione dell’emergenza tutto può funzionare a pieno ritmo: affari e consenso mediatico.

Rimane un ultimo intoppo: il cosiddetto protagonismo delle Procure. Ai tempi di Tangentopoli si disse che la magistratura aveva dovuto fare quella pulizia che la politica della prima Repubblica non aveva saputo fare. Oggi alla magistratura tocca una nuova supplenza: sopperire ai controlli preventivi di legalità (sia politici che amministrativi) che la seconda Repubblica ha soppresso. L’obiettivo della destra affaristica e autoritaria che vuole le mani libere è di neutralizzarla. Da una parte la attacca esplicitamente, prospetta riforme punitive, propone commissioni d’inchiesta sulle inchieste anticorruzione, il tutto con l’obiettivo di ottenerne l’allineamento e l’obbedienza; dall’altra cerca di disarmarla con la previsione di moltiplicate immunità (dal premier ai parlamentari fino funzionari della protezione civile) e con le riforme relative al processo.

Ho letto stamani l’intervista del mio conterraneo Alfano su “La Stampa”. Ha imparato anche lui l’arte delle bagasce: attacca Di Pietro, i magistrati, l’opposizione. La linea che espone parte da “una revisione più acuta delle norme anti-corruzione”. Cosa sia questa incomprensibile “revisione più acuta” lo spiega dicendo che “il disvalore sociale della corruzione è più grave rispetto alle sanzioni previste dal codice penale”. Insomma vuole una legge bandiera che preveda l’aumento delle pene: una norma assai simile a quelle “gride” citate ne “I promessi sposi”, che anno dopo anno aumentavano le pene contro i “bravi”, i quali però continuavano liberamente a circolare, minacciare, spadroneggiare.

Nello stesso tempo l’Alfano comunica: sul processo breve non ci fermiamo; e il suo padrone aumenta la dose: le intercettazioni sono una barbarie. Insomma mentre si grida “lotta alla corruzione”, si impediscono le indagini più utili a individuare i corrotti e si organizza la prescrizione breve per chi ha mezzi e avvocati per allungare i processi. Una volta Guicciardini scrisse che non gli piacevano le pene eccessive: “Basta a mantenere il terrore il punire i delitti a 15 soldi per lira, pur che si pigli regola di punirli tutti”. Il Cavaliere ne rovescia il motto: per lui per i corrotti si può anche prevedere l’ergastolo, purché si pigli la regola di non punirne nessuno.

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