I giornalisti Maite Rico e Bertrand de la Grange - spagnola lei, francese lui - sono specialisti in reportage che intrecciano fascino e politicamente scorretto trasformandosi, per ciò stesso, in polemica. Ora questa coppia ripropone un ampio reportage - nel numero di febbraio della rivista «Letras Libres», diretta da Enrique Krauze - dal titolo «Operazione Che. Storia d’una menzogna di Stato» che darà fastidio alla vasta confraternita di devoti che sono andati in pellegrinaggio all’imponente mausoleo eretto dalla Revolución Cubana per custodire le spoglie di Ernesto Che Guevara a Santa Clara, la città che liberò durante la guerra contro Batista.
Questi resti sono stati ritrovati, nel luglio 1997, insieme a quelli di altri sei guerriglieri, in una fossa comune vicino all’aeroporto di Vallegrande - nell’Est della Bolivia - da un’équipe cubana composta da tre ingegneri esperti in geofisica, un antropologo forense e una storica e guidata dal dottor Jorge Gonzales, a quel tempo direttore dell’Istituto di Medicina Legale dell’Avana. Le spoglie sono state recuperate di notte - visto che la popolazione non voleva che venissero spostate - e portate a Santa Cruz de la Sierra dove, nell’ospedale giapponese, i medici legali cubani hanno compiuto gli esami necroscopici di rito. Lì, il dottor Gonzales ha annunciato che «lo scheletro numero 2» era inequivocabilmente quello del Che. Non aveva mani (l’esercito boliviano, dopo l’assassinio, gliele aveva tagliate per mostrarle come prova della morte) le caratteristiche del cranio collimavano e la dentatura coincideva con la radiografia dei denti del guerrigliero. Per di più, nella fossa erano stati trovati la cintura e il mantello verde che si vedono addosso al cadavere del Che nella celebre fotografia scattata nella lavanderia dell’ospedale Signore di Malta.
L’allora presidente della Bolivia, Gonzalo Sanchez de Losada, concesse il permesso per l’espatrio e i resti furono portati in volo a Cuba il 12 luglio 1997. Giusto in tempo per i festeggiamenti allestiti nella ricorrenza dell’assalto alla Moncada, il 26 luglio. Tre mesi dopo, con una grandiosa cerimonia, le illustri ossa furono deposte nel mausoleo di Santa Clara davanti a migliaia di cubani e consacrate con un chilometrico discorso di Fidel Castro. Quell’anno - altra tempestiva coincidenza - era stato dichiarato, a Cuba, «l’anno del Che», in ricordo del trentesimo anniversario della morte.
Maite Rico e Bertrand de la Grange hanno intervistato, in Bolivia, a Cuba e in Argentina, un gran numero di persone coinvolte, a vario titolo, nella vicenda, dal momento dell’assassinio sino alla scoperta della fossa, tre decenni più tardi. Mettendo a confronto tutte le testimonianze storiche e giornalistiche in grado di far luce sulla vicenda. I risultati dell’indagine si leggono con la curiosità e il senso d’attesa che regalano un eccellente romanzo giallo. Le conclusioni ci dicono che i resti del Che non riposano nel mausoleo di Santa Clara; che quelli veri non sono stati mai trovati e che la presunta scoperta è stata una rappresentazione teatrale inventata per compiacere Fidel Castro il quale, in un momento difficile e quasi critico per la Revolución cubana dovuto al dissolvimento dell’Unione Sovietica e alla fine dei suoi sostanziosi sussidi, aveva deciso di organizzare, come «distrazione», una grande mobilitazione rivoluzionaria attorno alla mitica figura del «guerrigliero eroico».
Non posso riassumere, qui, tutte le argomentazioni di Maite Rico e Bertrand de la Grange, perché sono moltissime. Dirò solo che, a mio avviso, le più convincenti sono quelle che arrivano dagli abitanti di Vallegrande. Persone come l’agricoltore Casiano Maldonado o il tedesco Erick Bloessi, che affermano d’aver visto il cadavere del Che dopo che i resti degli altri guerriglieri erano già stati sepolti a Vallegrande. Quanto all’ipotesi che il Che sia stato cremato dal tenente colonnello Andrés Selich, dietro ordini precisi delle alte cariche dell’esercito boliviano, forse degli stessi generali Alfredo Ovando e Juan José Torres, potrebbe essere veritiera, ma non esistono, in merito, prove sufficienti. D’altra parte, le dichiarazioni di entrambi i generali si contraddicono. S’interrogano gli autori: com’è possibile che la scoperta dei resti del Che non sia stata contestata dalla comunità scientifica internazionale nonostante il dottor Gonzales e la sua équipe abbiano evitato di sottoporre le ossa alla prova del dna dopo averlo promesso? Non basta. Le conclusioni dell’équipe cubana sono state avallate da medici legali argentini di tutto rispetto, accorsi in Bolivia poco dopo il ritrovamento, e il dottor Gonzalez ha presentato i risultati delle sue ricerche in congressi di specialisti che, a quanto pare, non li hanno messi in dubbio.
È possibile che l’ipotesi di Maite Rico e Bertrand de la Grange, sia vera. Fidel Castro aveva bisogno che il cadavere del Che ricomparisse per dargli una mano in una grande operazione di manipolazione dell’opinione pubblica cubana. E l’intera macchina dello stato si è messa in moto per trovare il cadavere, o per fabbricarlo, se necessario. Per questo la fossa di Vallegrande è stata aperta di notte, per questo non è stata eseguita la prova del Dna sullo «scheletro». Il resto, aggiungerei, lo ha fatto il mito. Un essere che, da storico, diventa mitico non può essere giudicato in base a criteri razionali, ma solo ad atti di fede e di speranza. È il caso del Che. La sua figura oggi - come spiega uno dei collaboratori del numero di Letras Libres dedicato alla sua immagine - è «un marchio capitalista» sfruttato da imprenditori d’ogni genere nei cinque continenti, e venerata, citata, ammirata da un gran numero di giovani che non hanno il minimo afflato rivoluzionario e forse non sanno neppure trovare Cuba o la Bolivia sulla carta geografica.
Il Che rappresenta un personaggio del quale la storia contemporanea è orfana: l’eroe, il giustiziere solitario, l’idealista, il rivoluzionario generoso e disinteressato che compie imprese superlative e, alla fine, è abbattuto, come i santi, dalle forze del male. Non importa che gli storici seri dimostrino, in opere esaurienti, che il Che in carne e ossa era molto lontano da questo modello di virtù militari ed etiche. Certo, fu coraggioso, ma anche sanguinario, capace di fucilare decine di persone senza il minimo scrupolo e, da un punto di vista militare, i suoi insuccessi e i suoi errori sono stati assai più numerosi dei buoni risultati. È vero: era coerente, austero e frugale, incapace di lasciarsi andare alle pagliacciate e alle doppiezze dei politicanti di professione. Ma è vero, anche, che la violenza e ciò che Freud definisce «la pulsione di morte» ne hanno guidato il comportamento quanto la passione per l’avventura e per la rivoluzione. Il mito esigeva che i resti del Che ricomparissero e, quando è accaduto, tutti coloro che li attendevano hanno creduto senza pensarci troppo. Così, a volte, si scrive la storia. E la bellezza dell’invenzione fantastica rende più ricca la grigia realtà.
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