Nella memoria di chi ha vissuto gli anni del dopoguerra, il nome di Arthur Koestler è legato a una delle lettura più sconvolgenti: Buio a mezzogiorno, un romanzo ispirato al processo di Nicolaj Bucharin, un dei leaders del comunismo sovietico che Stalin aveva fatto incarcerare e fucilare. Il processo a Bucharin fu uno dei primi in cui gli imputati si autoaccusassero dei peggiori crimini, primo fra tutti quello d’essere stati, fin dall’inizio, delle spie infiltrate nei vertici comunisti.
Il mistero degli incredibili processi di Mosca era il più difficile da mandar giù per chi in quegli anni si accostava al movimento comunista con la migliore buona volontà, ma senza voler avere gli occhi bendati: ma era un tema di cui non si poteva parlare nelle sedi di partito, se non nei termini ufficiali del complotto dei traditori trotzkisti. E non era soltanto una storia del passato, perché presto cominciarono processi dello stesso tipo in tutte le democrazie popolari contro i dirigenti accusati di seguire l’eresia di Tito.
Il libro di Koestler arrivò dunque anche in Italia preceduto dagli anatemi di rito contro il provocatore al soldo dell’imperialismo. Era invece un libro dietro al quale si sentiva ancora l’esperienza della tensione rivoluzionaria dell’epoca eroica: Koestler era stato un comunista ungherese amico di Bucharin ed era vissuto a lungo a Mosca come funzionario dell’Internazionale. La spiegazione che egli dava del perché delle confessioni era psicologicamente complessa e implicava una tragica auto identificazione del rivoluzionario con l’Inquisizione che voleva distruggerlo, una introiezione del processo storico e della volontà del partito che portava ad accettare l’annientamento della soggettività e quindi anche della propria individualità e del proprio passato.
Tutto questo avveniva attraverso interrogatori alla Delitto e castigo in cui la coercizione soverchiante era ammantata di dialettica raziocinante, e pure attraverso una allucinante contrattazione. Insomma era ancora una estrema sublimazione dell’orrore, un tentativo di spiegare per via psicologica e ideologica l’adesione delle vittime al loro massacro morale prima che fisico. La realtà (come si seppe più tardi) non lasciava invece alcun margine alla tragicità sublime, ma si basava solo sull’annientamento fisico con torture tali da spezzare qualsiasi fibra. ma forse nel martirio di Bucharin questa perversa costrizione ad assumere il ruolo di traditore con un margine sia pur minimo lasciato alla volontà esisteva ancora, tanto è vero che Bucharin ritrattò le proprie confessioni al processo (fu l’unico caso; poi i metodi adottati furono tali da escludere queste sorprese).
Quando divoravo queste pagine ero uno dei tanti giovani comunisti che cercavano di mettere insieme la realtà della lotta politica che ci stava a cuore con questo modo lontano e incomprensibile; ed era con brividi sulla schiena che accoglievamo quel freddo di prigione che ci prendeva fin dalle prime pagine – col mal di denti, e il puzzo del bugliolo, e i sofismi della ragion di Stato – ed insieme ci confermava in una direzione tragica che una rivoluzione totale non poteva non avere. Forse questo costituiva l’ascendente di Koestler anche su chi, in quegli anni, non seguiva la sua scelta era questo: anche lui era uno che cercava di capire, che cercava le ragioni che spiegassero l’orrore e l’assurdo, quali egli aveva attraversato di persona. Erano gli anni dell’esistenzialismo di Camus e di Sartre, ed era di questa luce che si colorava la testimonianza che Koestler ci dava delle vite dei rivoluzionari sbatacchiati da una frontiera all’altra e da una galera all’altra, nelle contraddizioni e le svolte imposte dalla politica dello Stato-guida ai comportamenti e alle coscienze.
In un altro libro di Koestler che si leggeva in quegli anni, Schiuma della terra, sul campo di concentramento del Vernet in cui i francesi avevano rinchiuso i comunisti allo scoppio della guerra contro la Germania, uno dei personaggi è il nostro Leo Valiani, allora doppiamente prigioniero, per l’isolamento decretatogli dai compagni di prigionia in quanto avversario dichiarato dal patto russo-tedesco.
L’antropologia del funzionario dell’Internazionale che Koestler disegnava nel suo libro di saggi lo Yogi e il commissario, a ripercorrerla oggi sembrerà una rievocazione di un tempo lontanissimo? Oppure essa contiene dei lineamenti che sono sempre quelli di chi considera quell’idea di “potere” come un assoluto? Sto scrivendo solo sulla traccia della memoria e doveva verificare per rispondere, ma credo che la seconda risposta sia quella giusta.
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