Questo testo l’ho trovato ne “L’ospite ingrato”, la rivista on line del Centro Studi Franco Fortini. Non è nuovo: è stato scritto tra la fine del 2007 e l’inizio del 2008. E’ di Sergio Bologna, che viene da lontano, dal tempo dell’operaismo, ma che non ha mai cessato di studiare il lavoro. Oggi è la giornata dedicata alle "morti bianche" e non mancano nella rete ottimi pezzi indignati che denunciano carenze e chiedono interventi. Mi pare tuttavia che manchi un approccio, come dire?, strutturale. Questo pezzo, per molti aspetti controcorrente, lo sperimenta. Esso s’inserisce in un lungo percorso di studi sulla microimpresa che Bologna iniziò sulla rivista “Altreragioni” e che lo portò a individuarvi una forma peculiare di “lavoro subordinato”. Sono temi su cui bisognerebbe tornare a ragionare. (S.L.L.)
Io non credo che interventi legislativi o misure organizzative (come ad es. la creazione di un pool di magistrati specializzato) possano produrre effetti di una qualche rilevanza nella lotta agli incidenti mortali sul lavoro. Com’è possibile prescrivere una terapia quando non si conoscono le condizioni del paziente? Posso peccare di presunzione, ma sono quasi certo che le istituzioni non hanno presente la mappa del mercato del lavoro in Italia, nemmeno a grandi linee. E quindi non hanno la più pallida idea della mappa del rischio. Cominciamo da un dato: il differenziale di circa 2,4 punti percentuali tra l’incidenza dei morti sul lavoro in Italia rispetto al resto dell’Europa è dovuto al fatto che da noi si muore “in itinere”, cioè mentre ci si sposta per lavoro o per andare o tornare dal luogo di lavoro. Quindi “il luogo” di lavoro di per sé, concepito come luogo fisico, non sarebbe più rischioso in Italia di quanto sia quello di altri Paesi europei. E’ lo spazio della mobilità quello più rischioso. Perché? La rivoluzione postfordista ha agito in due direzioni: 1) ha man mano “dissolto” il luogo di lavoro come spazio fisico separato mischiandolo sempre più al luogo di vita privata e lo ha dilatato nello spazio (despazializzazione del rischio), 2) ha – come in nessun altro Paese d’Europa – affidato la gestione del rischio a un’entità particolarissima, quella che forma la caratteristica più tipica dell’Italia, cioè la microimpresa. E quando intendo microimpresa intendo un’entità talmente piccola che stento a riconoscere in quella le caratteristiche istituzionali di un’impresa – cioè di qualcosa che ha bisogno almeno di tre ruoli sociali, il capitale, il manager e l’operaio. Io vorrei prendere per mano il Ministro Damiano, il dottor Epifani e il dottor Guariniello e metterli di fronte a quella semplice tabella ISTAT che sono solito riprodurre in tutte le mie presentazioni. Da cui risulta che più di 6 milioni di persone – su un totale di 24 - lavora in unità impropriamente chiamate “imprese” la cui dimensione media è 2,7 addetti. Ma c’è qualcosa di più recente. Il 29 ottobre 2007 l’ISTAT pubblicava una nuova serie di dati, cito: “Nelle microimprese (meno di 10 addetti), che rappresentano il 94,9 per cento del totale, si concentra il 48,0 per cento degli addetti, il 25,2 per cento dei dipendenti, il 28,3 per cento del fatturato ed il 32,8 per cento del valore aggiunto. In esse il 65,1 per cento dell'occupazione è costituito da lavoro indipendente”. Perché questa assurda miniaturizzazione dell’impresa in Italia? Per ottenere flessibilità, minori costi del lavoro ma anche per trasferire sui più deboli il rischio. Paradossalmente ha ragione la Confindustria quando protesta contro i decreti d’inasprimento delle sanzioni. Le sue imprese, quelle che hanno firmato gli accordi sindacali, quelle dove vige ancora l’art. 18, il rischio lo hanno esternalizzato da vent’anni, non è roba loro, ma dei loro fornitori, dei subappalti, delle cooperative di lavoro, degli autonomi, in una parola, è roba scaricata sulla microimpresa! Pertanto il rischio ha cambiato sede, si è trasferito sui percorsi della mobilità (morti “in itinere”) e si è annidato nei piccolissimi organismi della microimpresa, là dove padrone e operaio stanno a galla per miracolo e dove il padrone muore assieme all’operaio (vedi Molfetta). Il caso Thyssen è un caso anomalo, non bisogna prenderlo a misura delle cose. Le maggiori sanzioni previste nei decreti non colpiranno mai le piccole, medie, le grandi imprese – colpiranno sempre, state sicuri, quei poveracci che se la cavano in mezzo a mille difficoltà. Ma sono quelli che mandano avanti questo Paese, sono quelli che garantiscono la tenuta occupazionale, sono quelli che per vent’anni si sono assunti sulle spalle la responsabilità del rischio! Senza poter dettare le condizioni del loro lavoro ma subendo i ritmi voluti dai committenti. E sono questi ritmi ad uccidere, malgrado tutte le attrezzature antinfortunio. Che te ne fai dei tuoi fottuti caschi, scarponi, cinture, occhiali, della tua fottuta segnaletica quando devi scaricare da una nave 37 container all’ora e invece di otto ore ne devi lavorare dodici, perché senza gli straordinari non arrivi a fine mese?
Misure legislative, azione repressiva della magistratura, diavoleria dell’antinfortunistica – tutta roba inutile. Bisogna rovesciare i rapporti sociali che hanno creato questa infame e incivile condizione del lavoro oggi in Italia, per cui sui più deboli economicamente si è scaricato non solo tutto il rischio fisico ma anche tutta la responsabilità civile e penale del medesimo. Non è un caso, è la riprova di quanto sto dicendo, che sia a Genova che a Molfetta la colpa degli incidenti è stata attribuita o alle vittime (“non hanno indossato le mascherine”) o ai compagni delle vittime. Malvolere di magistrati? No, il rischio è stato strutturato in modo che la colpa sia sempre delle vittime. Postfordismo all’italiana. Uscire da questa condizione è una strada lunga, lo so, ma questa è la realtà, questo il risultato di aver messo in soffitta per più di vent’anni il problema del lavoro.
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