24.4.10

Un altro aprile (e un altro maggio). Una rievocazione (S.L.L.)



Io mi ricordo un altro 25 aprile. Avevo 26 anni o poco meno. Ero padre, marito, insegnante, milanista e, soprattutto, comunista. Vivevo a Gela.
Ed era in corso, intensissima, la campagna in vista del referendum sul divorzio. Risuonavano per le strade le parole di una canzoncina di Modugno, che faceva: “Il nostro anniversario non è sul calendario / perché ogni nuovo giorno è il nostro giorno per noi due / diverso è il tuo cognome / uguale abbiamo il nome/ noi ci chiamiamo amore tutti e due”. (http://www.youtube.com/watch?v=s45LCPXAvAo&feature=related)
Noi le facevamo risuonare anche in casa: i compagni socialisti ci avevano regalato il 45 giri di propaganda pro-divorzio che le conteneva. In verità quelle strofette erano un elogio della libera convivenza (a quei tempi molto rara) più che del divorzio. Ma a noi sembravano molto belle!
Facevamo il porta a porta, quartiere per quartiere. Il più difficile era S. Ippolito, pieno di proletari, edili e braccianti soprattutto, in gran numero elettori del Pci (l’80% dei voti); ma molti non sembravano convinti, non volevano votare. Agli analfabeti insegnavamo ad ignorare il serpente (la S del SI) ed a segnare la croce sull’uovo (la O del NO).
Quando non andavo io, che ero segretario di sezione, andava Carmela che era impegnata nel partito con le donne. Chi rimaneva a casa godeva della compagnia di Leila. Le insegnavamo a leggere: avevamo appena comprato il libro delle Edizioni Armando, mi pare di un certo Domann, Leggere a tre anni, cui era allegata una scatola con il materiale didattico. La nostra bambina era precoce e vivacissima. Una domenica la portammo al Bosco Cimia, sulla strada per Caltagirone. Gli alberi erano diversi, più alti, più fitti, più verdi di quelli che vedeva a Gela o che aveva osservato a Santo Spirito di Caltanissetta o alla Musta di Campobello, le familiari campagne ove passavamo qualche settimana in villeggiatura. Si voltò e ci chiese: “E’ questa la campagna referendaria?”.
Il 25 Aprile, al mattino, c’era la cerimonia commemorativa della Liberazione. La gente non era tantissima, ma un gruppetto di ragazzi cantava Bella ciao con  e l’allegria era tanta. Ad allietarci non era solo il ricordo di un’antica festa d’aprile, ma la notizia appena giunta della sollevazione militare in Portogallo. Non tutto era chiaro, ma di sicuro era in vista qualcosa di grosso.
La sera al comizio del Pci per il No qualcuno annunciò che Caetano (il successore del dittatore Salazar) aveva ceduto. Il fascismo in Portogallo era caduto. “Ora tocca alla Grecia e alla Spagna” – disse Totò La Marca che aveva fatto il partigiano con Tito in Yugoslavia ed era stato deputato del Pci. Leonardo Speziale, comunista dell’emigrazione e partigiano nel Nord Italia, piangeva. L'oratore ufficiale era importante, Giorgio Napolitano. Tra i dirigenti del partito era quello che mi piaceva di meno, ma fece un bel discorso. Parlò del Portogallo e del fronte divorzista inquinato dai neofascisti del Msi. I socialisti avevano fatto un manifesto splendido, in cui avevano appioppato ad Almirante i baffetti di Hitler, invitando a non votare come lui. Napolitano, per respingere l’accusa che Fanfani rivolgeva al Pci, di aver fatto comunella con i borghesi e con i liberali, citò Roma città aperta, in particolare la sequenza in cui l’ufficiale tedesco offre la libertà al comunista in cambio della delazione nei confronti dei capi badogliani (“sono aristocratici e monarchici, vostri nemici”) e riceve per tutta risposta uno sputo.
Il telegiornale della notte non aggiunse molto alle notizie che già conoscevamo, ma ci commovemmo tutti nel vedere i fucili con dentro i garofani. L’immagine sarebbe diventata il simbolo di quella rivoluzione gentile.
Nei giorni successivi “L’Unità”, “il manifesto”, ma perfino il “Corsera” e la tv italiana ci restituirono le scene di un popolo che dibatteva nelle piazze e nelle strade del proprio avvenire, che dichiarava senza remore le proprie speranze e i propri timori. Non era un “presa del potere”, ma una “presa della parola”, come ne I dieci giorni che sconvolsero il mondo di Reed.
Alla colonna sonora domestica, per una sorta di associazione, aggiungemmo Avril in Portugal, nell’esecuzione di non so quale orchestra americana. Ci accompagnò per molti giorni, probabilmente fino a quel 13 maggio in cui il No all’abrogazione del divorzio vinse con proporzioni insperate. Vinse anche a Gela e stravinse al quartiere S. Ippolito. Berlinguer commentò: “Una vittoria della libertà”.
Noi comunisti e divorzisti, mogli e mariti, singole e singoli, figliolette e figlioletti anche molto piccoli andammo tutti a cena in un ristorante pizzeria che aveva appena aperto a Capo Soprano. Si chiamava “Las Vegas”, nome che ricordava la capitale Usa del divorzio e del gioco d’azzardo.
Qualche anno dopo Carmela ed io abbiamo pure divorziato. Ma quella è un’altra storia.

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