Un elzeviro di Elena Loewenthal su “La Stampa” del 24 novembre 2009, Lo Stato ebraico non "grazie" ma "nonostante" la Shoah, ha la forma della recensione a un libro Georges Bensoussan - grande studioso del sionismo – dal titolo ch’è tutto un proclama: Israele, un nome eterno, uscito qualche mese fa per i tipi della Utet. Il breve pezzo è anch’esso un proclama. La tesi è che lo Stato d’Israele non è la conseguenza della catastrofe dei campi di sterminio e che anzi è nato “nonostante la Shoah” e non grazie ad essa. Il sionismo, infatti, sarebbe intrinseco alla civiltà ebraica, farebbe parte dell’anima di Israele e non sarebbe affatto una adesione passiva all’ottocentesco principio nazionale e a canoni nazionalistici altrui. Lo mostrerebbe il fatto che già sotto l’amministrazione britannica si sviluppa in Palestina un vero e proprio “sistema sociale, politico e culturale” su cui nel 1948 si innesta lo Stato d’Israele.
C’è una costante, in verità, nei nazionalisti: l’idea che il proprio nazionalismo non assomigli ad alcun altro, che porti seco il genio della “nazione”, la sua irripetibile individualità. E al fondo di tutto ciò, nonostante gli spiritualismi romantici e gli sproloqui sull’“anima nazionale”, c’è una sorta di biologismo, un riferimento alla razza, al “gene” più che al “genio”. Lo dice perfino l’etimologia della parola “nazione”, che originariamente vuol dite “nascita” e perciò si connette ai “nati” e alla “natura”. Le nazioni (che sono costruzioni storiche e dunque “artificiali”) si ipostatizzano e si presentano come “naturali”, come le famiglie.
Gli ebrei di Europa furono i primi, insieme agli zingari, a pagare il prezzo di queste concezioni. Le nazioni ottocentesche non si definiscono solo su basi territoriali, o linguistiche, o culturali, ma anche e soprattutto genetiche e le comunità ebraiche insediate in molte regioni d’Europa diventano spesso “l’altro”, l’intruso, il diverso che nella sua diversità ci aiuta ad identificare noi stessi, ad “essere chi siamo”. Le rinnovate persecuzioni del secondo Ottocento e del primo Novecento in molti paesi europei hanno lo scopo implicito di potenziare l’identità nazionale. E non è un caso che l’unico stato che ne rimane sostanzialmente immune è quello che rifiuta in radice il principio nazionale, quell’impero asburgico il cui re e imperatore paternamente governa popoli e comunità e di “nazioni” non vuole neanche sentir parlare, anche perché prima o poi le nazioni tendono a farsi stati e a ripulire il proprio territorio. Paradossalmente, forse per l’autorità del Duce e per la simpatia ricambiata di costui verso la Sarfatti, fin quasi alla vigilia delle leggi razziali molti ebrei della penisola orgogliosamente si chiamavano “italiani di religione israelitica” e pochi mettevano in dubbio la loro italianità. Credo però che questa condizione non sarebbe durata a lungo anche senza il pessimo esempio del nazismo hitleriano: l’individuazione e l’emarginazione del diverso è ineluttabile in tutti i nazionalismi.
Torniamo però alla nascita di Israele. Non pretendo di confrontarmi con la Loewenthal (o con il professor Bensoussan) sulla conoscenza storica dei fatti di Palestina nel corso del Novecento. Conosco poco, quel poco che può conoscere un italiano mediamente acculturato che non sia di religione o di famiglia ebraica. Conosco abbastanza per ammirare la straordinaria esperienza del kibbutz e del socialismo sionista, propria di alcune comunità di ebrei entro un organismo plurale com’era il protettorato britannico (ne ho scritto anche in questo blog: http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2010/01/degania-cento-anni-dal-primo-kibbutz.html ), ma anche per sapere che la “cacciata” del grosso degli arabi dalla Palestina (non della “nazione” palestinese, che solo dopo è stata inventata, da Israele prima ancora che da Arafat) poté più facilmente avvenire per ciò che l’opinione pubblica mondiale scopriva essere accaduto ad Auschwitz, a Mathausen, alla Risiera di San Saba.
Poco importa, a questo proposito, che non pochi capi delle tribù arabe di Palestina volessero, a loro volta, cacciare gli ebrei, nuovi e vecchi arrivati: gli Arabi di Palestina, per loro fortuna, non avevano sopportato sulla loro pelle un tentato genocidio e, di conseguenza, non godevano delle simpatie internazionali che l’orribile violenza subita attirava sugli Ebrei.
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