11.4.10

Reichlin, il papa straniero e i baffi di Giolitti. L'articolo della domenica.

Appena finite le vacanze pasquale il vecchio Alfredo Reichlin ha preso penna per esprimere una idiosincrasia che condividiamo. La esplicita all’inizio dell’articolo di mercoledì 7 aprile su “l’Unità” dal titolo Altro che papa straniero: al Pd serve una vera idea: “Che cosa deve succedere perché la sinistra invece di partire da questo continuo e insopportabile parlare di sé e dei suoi organigrammi si decida a tentare una nuova analisi della realtà? Dico realtà. Cioè non il chiacchiericcio riformista e politologico di questi anni”. Reichlin, che da giovane dirigente comunista era un po’ spericolato (qualcuno ricorda ancora la sua simpatia per la Quarta Internazionale), oggi tenta di fare il saggio (“Calma e gesso – scrive - evitiamo di drammatizzare”); un suo fan, Roberto Barbera, dal sito “L’inviato speciale” ne canta le lodi venerdì 9, proponendo nel titolo che “si rilanci la generazione dei vecchi” e parlando della “grande scuola del Pci”.

Barbera sembra in linea con l’elogio (invero tardivo) che Adriano Sofri aveva fatto qualche giorno prima su “Il Foglio” di altri due “vecchi”, Pietro Ingrao ed Emanuele Macaluso: il primo per un suo messaggio televisivo agli operai della Vinyl all’Asinara, il secondo per una sua lettera di auguri, insieme ragionata e appassionata, rivolta proprio ad Ingrao dalle colonne del “manifesto”.

Ma negli altri due c’è un respiro sociale che in Reichlin, da tempo inguaribilmente politicista, manca. Ingrao, infatti, mostra di credere che, nonostante tutto, in alcune lotte operaie di oggi, che sembrano disperate, sia presente un principio di salvezza per l’intera società. Macaluso, che vezzosamente si vanta di essere “un po’ di destra”, rievoca le lotte del 47, del tempo della costruzione della Repubblica democratica, e rammenta i contadini siciliani impegnati a combattere la mafia e il feudo, mentre gli operai del Nord, pur nella difficilissima condizione del dopoguerra, grazie al Pci, comprendono, solidarizzano, sentono come proprie le lotte del popolo meridionale.

Reichin se la prende (giustamente) con la spasmodica ricerca di un nuovo leader cui assegnare un ruolo taumaturgico, diffida di un “largo ai giovani” privo di contenuti, enuncia quella che per lui è la questione fondamentale con cui una sinistra rinnovata dovrebbe confrontarsi: quella della nazione italiana che sembra sfaldarsi sotto i colpi convergenti del “territorialismo” leghista, del berlusconico individualismo proprietario, del corporativismo dei gruppi privilegiati. Il compito della sinistra è bello e scritto: Berlinguer lo avrebbe chiamato “salvare l’Italia”, aggiungendo che non la si salva se non la si rinnova. Reichlin chiede al Pd una “vera idea”, senza la quale l’assetto federalistico ormai inevitabile produrrà un indebolimento degli stessi diritti democratici e immagina che intorno a questa “missione” si possa costruire un gruppo dirigente plurale ma coeso, animato da una forte tensione morale. E’ ammirevole che, non pretendendo di produrre lui questa idea-forza, Reichlin dica che essa non coincide con il chiacchiericcio riformistico degli ultimi decenni.

Lo schema che l’anziano dirigente postcomunista disegna presenta però una clamorosa omissione: mancano quelle che un tempo si sarebbero chiamate “le forze motrici”, cioè i soggetti sociali. Non è un caso. E’ frutto della scelta fondamentale che fecero Occhetto e i suoi discordi sodali quando sciolsero il Pci: di un partito non già interclassista (il che richiederebbe un riconoscimento dell’esistenza delle classi sociali e della loro fungibilità politica), ma aclassista, un partito che nel mercato elettorale cerca consensi dappertutto sulla base di un programma “valoriale” e dell’abilità gestionale della sua “classe dirigente”. Mi rammento un bel libretto di Nichi Vendola dal titolo Soggetti smarriti: lo presentò a Perugia nel 1992 con Roberto Monicchia e Luciana Brunelli. Tutti e tre assolutamente unanimi nella presa di distanze da un orizzonte politico (quello, allora, del Pds) che rinunciava insieme a un generale progetto di trasformazione economica e civile e all’individuazione delle forze sociali in grado di promuoverla. E’ questo ciò che rende del tutto astratta la perorazione di Reichlin, mentre i suoi antichi compagni Macaluso e Ingrao mantengono, nonostante tutto, una loro peculiare concretezza. Il socialdemocratico “un po’ di destra” e il comunista non pentito e “acchiappanuvole” sanno a “chi” parlano e sanno “chi” vorrebbero rappresentare.

L’articolo di Reichlin è tuttavia qualcosa di più (e di peggio) di una predica; è anche un esorcismo. Egli infatti sembra invocare la coesione del gruppo dirigente attuale, seppure ringiovanito, mentrte rifiuta l’idea di un “partito sempre aperto”, capace non solo di aprirsi a nuove forze, e perfino a leadership che provengano dall’esterno. Il bersaglio dichiarato della polemica è il direttore di “Repubblica” Ezio Mauro e la sua proposta di un “papa straniero”. Il bersaglio non esplicitato, ma facilmente individuabile dal contesto, è Nichi Vendola. Nel pezzo de “l’Unità” c’è anche una sorta di identikit del leader del nuovo (?) centrosinistra, le cui caratteristiche più che dette vengono alluse con il ricorso all’analogia storica. Leggiamolo: “La storia non ci dice che età avesse Giolitti al suo avvento, ma ricorda che idee mise in campo: riconobbe i diritti del mondo del lavoro, concesse il suffragio universale maschile, riformò il vecchio Stato sabaudo e reazionario”. Interpretiamolo. Quando Giolitti prese in mano la guida dell’Italia, agli albori del Novecento, non aveva forse età, ma di certo aveva un passato. Era già stato per un periodo brevissimo capo del governo, aveva mostrato una grande capacità di intendersi tanto con i gruppi e sottogruppi insediati in Parlamento quanto con le consorterie affaristiche (i “capitani coraggiosi” di fine Ottocento), aveva saputo portare nella sua maggioranza i più tipici rappresentanti del trasformismo (i Dini e i Mastella dell’epoca) ed era stato marginalmente coinvolto in uno scandalo bancario. Non portava i baffetti, bensì mostacci piuttosto lunghi; ma per tutto il resto potrebbe ricordare un aspirante statista dei tempi nostri.

P.S. A un certo punto dell’articolo il saggio Reichlin afferma: “Non bastano le poesie di Nichi Vendola. Ci vogliono le idee”. Credo che sia vittima di un vecchio e insopportabile pregiudizio contro la poesia. Non potrebbero le poesie (di Vendola o di altri) contenere idee che i politici prosaici non sono in grado di pensare e formulare? Ha presente Leopardi?

1 commento:

Pereira50 ha detto...

L'Ordine Nuovo e i comunisti torinesi se in un certo senso possono essere collegati alle formazioni intellettuali cui abbiamo accennato e se pertanto anch'essi hanno subito l'influenza intellettuale di Giustino Fortunato e di Benedetto Croce, rappresentano però nello stesso tempo una rottura completa con quella tradizione e l'inizio di un nuovo svolgimento , che ha dato già i suoi frutti e ancora ne darà. Essi come è stato detto hanno posto il proletariato urbano come protagonista moderno della storia italiana e quindi della quistione meridionale. Avendo servito da intermediari tra il proletariato e determinati strati di intellettuali di sinistra, sono riusciti a modificare, se non completamente, cero notevolmente l'indirizzo mentale di essi.E' questo l'elemento principale della figura di Piero Gobetti, se ben si riflette. Il quale non era un comunista e probabilmente non lo sarebbe mai diventato, ma aveva capito la posizione sociale e storica del proletariato e non riusciva più a pensare astraendo da questo elemento. Gobetti, nel lavoro comune del giornale, era stato da noi posto a contatto con un mondo vivente che aveva prima conosciuto solo attraverso le formule dei libri. La sua caratteristica più rilevante era la leantà intellettuale e l'assenza completa di ogni vanità e piccineria di ordine inferiore: perciò non poteva non convincersi come tutta una serie di modi di vedere e di pensare tradizionali verso il proletariato erano falsi ed ingiusti.

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