25.4.10

Leccalecca, Tessitore e Vengo anch'io. Gli ipocriti dell'osceno triangolo. L'articolo della domenica.

“Ipocrita” nel suo originario significato greco non era neanche una brutta parola. Voleva dire “attore”. Solo il tempo vi aggiunse una sfumatura negativa, di “falso e bugiardo”, attribuita a chi recita una parte nella vita sociale e civile e non sulla scena. Alla lunga questa accezione prevalse sulla primitiva. A me è sembrato che questa maledetta domenica politica, cominciata in anticipo ieri sera con il discorso milanese del presidente Napolitano, sia stata dominata da un gioco delle parti, da un festival dell’ipocrisia, come dice la mia amica Stefania Piacentini. Ne sono stati protagonisti i vertici di una sorta di “Triangolo istituzionale” (un “triangolo delle Bermude” che può mangiarsi la Costituzione): Napolitano, Berlusconi e Fini.

Naturalmente il “miglior ipocrita” è risultato il Cavaliere che dalla tv ha rivolto un messaggio agli Italiani per il 25 aprile. Si era fatto stirare e distendere la pelle e non mostrava più le asprezze dei giorni scorsi. Era liscio e dolce: sembrava un “lecca lecca”.

Continuo a pensare che, come succede spesso negli uomini politici della sua natura, a Berlusconi non importi granché delle istituzioni e dunque delle riforme istituzionali. Credo che non capisca fino in fondo cosa davvero comporti questa scelta o quell’altra: per persone siffatte conta solo un potere senza limitazioni, l’adulazione generalizzata, la possibilità di premiare gli amici, di comprare chi può essere comprato, di tacitare chi non vuole starci. Sicché, nel suo discorrere, questa volta, pur conservando la trovata dello scorso anno (festa della “libertà” e non della liberazione, festa di tutti gl’italiani e non solo dell’Italia democratica e antifascista), ha concesso molto nella forma: il contributo della Resistenza (che, intanto, la Gelmini cancella dai programmi scolastici), l’omaggio ai “padri costituenti”, al loro spirito unitario, alla stessa Carta (giudicata il meglio che si potesse avere nel tempo in cui fu promulgata). Vengono accantonate e gettate nel dimenticatoio le antiche battute sulla Costituzione italiana copiata dalla sovietica, le prese di distanza sulla prima parte, le minacce del tipo: “la cambieremo anche da soli, chi vuole si accodi”. L’elenco delle riforme costituzionali ed istituzionali che il Cavaliere fa è quello solito: il federalismo per un potere più vicino al popolo, l’efficienza del governo, la “giustizia giusta” (lo slogan che fu caro a Pannella al tempo del caso Tortora).

Si sa quale siano le esigenze che lo muovono. Sul federalismo ha un debito con Bossi. Sull’amministrazione giudiziaria ha da conseguire l’impunità per ogni suo atto passato, presente e futuro e da tagliare le unghia alla magistratura perché torni, come ai tempi aurei della Dc, complice e connivente con il potere politico, economico e finanziario. Sulla forma di governo lascia trapelare qualche preferenza per il presidenzialismo o per un rafforzamento dell’esecutivo. In realtà sappiamo tutti che l’attuale presidenzialismo “di fatto” aiutato dal “porcellum” elettorale gli va benissimo. Ma qualsiasi norma che ulteriormente riduca il potere del Parlamento ne aumenterebbe la soddisfazione.

Va aggiunto che le più incisive riforme costituzionali, quelle che riguardano la prima parte della Costituzione, sono già avvenute, grazie anche ad una Corte costituzionale che blocca e rimanda indietro qualche monstrum giuridico, ma non può né vuole sistematicamente impugnare tutto l'impugnabile con gli attuali rapporti di forze in Parlamento e nel sistema delle comunicazioni.

In realtà dei “sacri principi” della Carta molti sono stati svuotati attraverso la legislazione ordinaria. Che la riduzione a mera merce del lavoro determinata dalla Legge Maroni-Biagi prima e dall’affossamento del Contratto nazionale di Lavoro sia coerente coi primi articoli della Costituzione è tutto da dimostrare. Che sia coerente con i valori di libertà di espressione e di stampa solennemente enunciati dalla Carta l’attuale assetto del sistema mediatico è una finzione. E analoghi discorsi possono farsi sulla sanità, sulla laicità, sull’istruzione, sull’ambiente, sulla privatizzazione di beni comuni fondamentali etc. etc. La modifica dell’articolato che gli estremisti alla Brunetta richiedono per la prima parte della Costituzione sarebbe solo un volere stravincere: nella “costituzione materiale” dello Stato Italiano tutto quello che il liberismo autoritario delle classi dominanti e dei grandi poteri internazionali pretendeva è già cosa fatta.

Anche per questo Berlusconi può fare il signore e dire a Bersani e D’Alema: “Accomodatevi”. Le riforme di cui ora si parla, del resto, tranne forse l’interpretazione da dare al federalismo fiscale, sono bene accolte anche dall’opposizione piddina. Dare riconoscimento costituzionale al “presidenzialismo di fatto” che oggi vige non può spiacere ai Veltroni, D’Alema eccetera eccetera, che sul rafforzamento degli esecutivi a tutti i livelli istituzionali hanno sempre puntato. Basta guardare gli Statuti regionali delle regioni impropriamente chiamate “rosse”. Infine, un più alto tasso di opacità e di impunità per gli atti del potere rispetto ai controlli della magistratura o della stampa piace a tutti i potenti, di maggioranza o di opposizione. Certi soloni del Pd pensano che, finita la legislatura delle riforme, bisognerà subire per qualche tempo ancora il potere bonapartista del Cavaliere, una cosa alla Putin o ancora peggio; ma si consolano facilmente: la decrepitezza, il rimbambimento e la morte arrivano per tutti. E allora - si illudono - sarà possibile una alternanza che riavvicini, anche nelle regole, il sistema italiano a un presidenzialismo meno orientale o sudamericano, magari alla francese.

L’unico limite che sembrano darsi i dialogatori democratici è la natura e l’applicazione concreta del federalismo fiscale che potrebbe avere effetti dirompenti sulla stessa unità d’Italia.

E’ a questo punto che entra in gioco Napolitano, la sublimazione dell’opportunismo politico. L’uomo che dovrebbe difendere la Costituzione ha mostrato da sempre accondiscendenza verso la destra che governa e ha ridotto al minimo i casi di conflitto, di fronte a leggi che ledevano i fondamenti della Repubblica. Ma oggi si è convinto che l’indebolimento oggettivo del Cavaliere, per l’inefficienza di fronte alla crisi e gli scandali, per il dilagare della Lega, per l’ostilità di Fini e dei suoi, ha notevolmente aumentato il suo ruolo. Egli può illudersi di tessere le fila del dialogo, per esempio ribadendo in continuazione il valore dell’unità nazionale, anche al fine di contenere le pretese leghiste. Nella sua trombonaggine migliorista l’antico avversario interno di Berlinguer sogna di passare alla storia come l’uomo che civilizzò Berlusconi e la Lega, che impedì la guerra civile e che favorì con la sua paziente tessitura il ritorno alla “normalità”.

Gianfranco Fini non pensa ancora alla storia: immagina per sé quel futuro da capo che gli vaticinò Almirante. L’aria da agnellino che ha assunto oggi da Lucia Annunziata, dopo i pesci in faccia di martedì scorso alla direzione del Pdl, come i complimenti rivolti a Berlusconi e “al suo nobile discorso” rivelano un adattamento tattico. Di fronte al gioco scoperto del Quirinale e di Palazzo Chigi (si potrebbe parlare di “una svolta del 25 aprile”) ha detto: “Vengo anch’io”. Dalla sua postazione non gli risulterà difficile il gioco di sponda.

Reggeranno Bersani e il Pd? Non credo. L’idea di diventare “ricostituenti” tenta da troppo tempo i capi di Pds, Ds, Pd perché rinuncino all’opportunità che la nuova situazione sembra offrire, per di più dopo una dura sconfitta elettorale e l’aggravarsi del marasma interno. Qualche resistenza interna potrà semmai venire da dirigenti di origine cattolico-democratica, alla Bindi, o da figure atipiche come Furio Colombo o Ignazio Marino. Ma, a mio avviso, potranno poco.

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