6.4.10

Milano, via San Gregorio. La finestra, il cimitero, il lazzaretto (Giovanni Raboni in "L'approdo letterario" - giugno 1977)

Giovanni Raboni con il fratello Fulvio e le cugine Volpato
Quando io sono nato, i miei genitori abitavano in via San Gregorio. Era una casa né vecchia né nuova, credo che risalisse – come tante altre case in quella zona di Milano – agli anni intorno alla prima guerra mondiale. Una volta, da quelle parti, c’era la stazione ferroviaria; credo che dalle finestre di casa mia si vedessero i binari. Ma nel 1932, quando io sono nato, i binari non si vedevano più, non c’erano più: e dalla finestra della stanza dove dormivo con mio fratello più grande si guardava su un terreno vago che ricordava la periferia anche se, in realtà, non eravamo in periferia. Questo terreno vago si animava – soprattutto di pomeriggio, e soprattutto di sabato pomeriggio – di giochi di ragazzi. Giocavano al pallone, alla guerra, agli indiani. Forse dovrei dire: giocavamo; mi sembra molto probabile di aver partecipato a quei giochi, ma non ne ho nessun ricordo preciso. Quello che ricordo, invece, è di aver guardato altri ragazzi giocare. Erano giochi deliziosi. Quella finestra è, sicuramente, uno dei luoghi, o meglio delle situazioni, che mi hanno spinto a voler essere un poeta, a voler scrivere delle poesie. Per molto tempo ho pensato che una poesia dovesse essere come quella finestra. Mi sembrava che una poesia fosse un vetro attraverso il quale si potevano vedere molte cose – forse, tutte le cose; però un vetro, e il fatto che il vetro fosse trasparente non era più importante del fatto che il vetro stesse in mezzo, che mi isolasse, mi difendesse. I giochi erano al di là del vetro, mentre io ero al di qua. Credo che non riuscirò mai a far capire la straordinaria delizia di questa situazione. Quello che è certo, comunque, è che quando ho cominciato a scrivere poesie la mia più grande aspirazione era di ritrovare quel tipo di delizia o, se si vuole, di privilegio. Di ogni poesia avrei voluto fare un osservatorio difesissimo e trasparente, un osservatorio per guardare la vita – cioè, forse, per non viverla. Naturalmente, la storia di quella che io considero adesso la mia poesia comincia dopo; comincia, immagino, proprio con la negazione, con la rinuncia a tutto questo: la finestra, l’osservatorio, la trasparenza. Ma la faccenda non dev’essere ancora del tutto risolta, almeno nel mio inconscio …
Giovanni Raboni all'inizio degli anni 60

La vera storia della mia poesia comincia con la rinuncia al sogno di felice autoemarginazione che ha dominato la mia adolescenza e che appartiene, forse, agli inizi di ogni poeta. È inutile precisare che questa rinuncia ha coinciso, per me, con l’ingresso nell’età adulta. Piuttosto vorrei cercare, e non solo per civetteria o per nostalgia, di legare anche questa fase diversa e più matura della mia poesia e della mia vita al luogo dove sono nato – alla mia città e, dentro la mia città, alla mia casa. Nel 1821, quando morto, il grande poeta milanese Carlo Porta è stato sepolto nel cimitero di San Gregorio. E io vorrei ricordare di sfuggita che proprio con Porta comincia, nella poesia italiana, quella tradizione lombarda che passa attraverso Manzoni e arriva fino a Tessa, a Sereni, a Rebora, che credo sia qualcosa di sostanzialmente diverso da quella che la storiografia dei Novecento intende come “linea lombarda” – che non ho mai capito bene cosa sia.

1880, Demolizione delle mura del Lazzaretto di Milano

Poi, sul conto di via San Gregorio, c’è stata un’altra scoperta: la scoperta che, per un tratto, la via dove vivevo coincideva con il perimetro del Lazzaretto – il Lazzaretto della grande peste di Milano, quella di cui parla Manzoni nei Promessi Sposi e nella Storia della colonna infame. Un pezzo del muro di cinta del Lazzaretto è ancora visibile. Sono convinto che questa seconda scoperta sia stata, per me, ancora più importante della prima. Grazie al Lazzaretto, al fatto di essere nato, per così dire, ai suoi margini, credo di essermi reso conto in un modo concreto, fisico – un modo che nessun libro, nessuna lettura mi avrebbe consentito – che la mia città non era solo quella che vedevo, case, strade, piazze, gente viva, ma era anche piena di storia, cioè di case, strade, piazze che non c’erano più e di gente che non era più viva, di gente morta. Mi sono reso conto, insomma, che la mia città visibile era piena di storia invisibile, e che questa storia era, a sua volta, piena di dolore, di minacce, di paura. Da quel momento, credo, è entrato nella mia poesia il tema della peste: peste metaforica, si capisce: peste come contagio e condanna, come circolarità e anonimato dell’ingiustizia.

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