In occasione del
ventennale della morte di PPP “L'Espresso” chiese ad alcuni poeti
italiani di ricordarlo con una poesia: non si tratta di grandi cose,
anche se un paio le riprenderò in altri post come curiosità.
Giovanni Raboni rispose all'appello con quest'articolo in cui esprime
argomentate riserve sulla poesia pasoliniana,
riserve niente affatto condivisibili che tuttavia giovano a definire
la “poetica” di Pasolini. I versi di Pasolini sono infatti
volutamente “impuri” e vivono nella “contaminazione”; cosa
che non si può dire della poesia di Raboni o di quella di Fortini, i
quali vogliono conservare alla parola poetica una sua specificità,
un suo statuto particolare. Non intendo parlare dell'aura, cui
nessuno dei tre autori citati rinuncia del tutto, ma la “sacralità”
cui aspira Pasolini sta proprio nel contaminato, nel mescidato,
nell'impuro. (S.L.L.)
Pier Paolo Pasolini con Giuseppe Ungaretti |
Più passa il tempo e più
crescono la mia ammirazione per Pasolini scrittore e le mie riserve
su Pasolini " poeta: includendo nel primo alquanto
arbitrariamente, il saggista, il critico letterario,
l'opinionista-polemista. il pedagogo, il geniale dilettante di
filologia e di semiologia, ecc. ecc., e nel secondo, altrettanto
arbitrariamente, l'autore di opere teatrali e narrative oltre che, si
capisce, il poeta in versi. Ho cercato più di una volta di spiegare
le ragioni di questa valutazione apparentemente dicotomica, ma senza
riuscire, temo, ad essere chiaro come avrei voluto. Il fatto è che
la dicotomia è, appunto, solo apparente, e che la ragione per la
quale amo Pasolini "scrittore" e quella per la quale non
amo Pasolini "poeta" sono praticamente identiche.
All'origine di entrambe
c'è, infatti, la straordinaria qualità intellettuale, la quasi
incredibile acutezza e chiaroveggenza di ciò che Pasolini ha
pensato, capito e detto intorno alla realtà storica e antropologica
del nostro tempo e del nostro paese: una qualità che continua ad
emergere in termini estremamente attuali noi i solo dai suoi scritti
saggistici e militanti, ma anche dai suoi scritti creativi.
Ma mentre nel caso dei
primi questo ha il valore, non meno esaltante che inquietante, di un
privilegio non scaduto, nel caso dei secondi ha, per una sorta di
amaro paradosso o contrappasso, il significato di una condanna
inespiabile. A vent'anni dalla sua morte, complice l'atroce
stagnazione del contesto sociale e politico, il discorso di Pasolini
è un discorso ancora bruciante, ancora capace di ferirci e, spesso,
di illuminarci: ma appare sempre più chiaramente, appunto, come un
"discorso", il cui senso è affidato essenzialmente agli
strumenti della descrizione e della dimostrazione, che Pasolini
maneggiava magistralmente e mai o quasi mai a quelli della
suggestione formale e dell'ambiguità metaforica, le cui risorse
Pasolini non padroneggiava e che forse, da moralista, inconsciamente
condannava.
Scolastico epigono
In altre parole, in tutti
i suoi scritti Pasolini analizza, critica, denuncia con estrema
lucidità e chiarezza; ma se questo è un grande merito per un
intellettuale, non lo è per un poeta. E sta di fatto che dalle
Ceneri di Gramsci in poi (cose diverse, ma non tali da
modificare sostanzialmente il giudizio, bisognerebbe dire dei suoi
esercizi giovanili in friulano, che rivelano in lui un notevole ma
scolastico epigono della grande tradizione novecentesca) le poesie di
Pasolini sono, con pochissime e non decisive eccezioni, dei
ragionamenti in versi, privi di un concreto e autonomo spessore
figurale e di un'autentica immaginazione formale, dove la suggestione
delle immagini e del ritmo, lungi dal risultare - come avviene in
ogni vera poesia - consustanziale al senso e da esso inscindibile, dà
spesso l'impressione d'essere "aggiunta" a scopo di
abbellimento e persuasione.
Non mi sembra necessario
estendere queste mie perplessità ai testi teatrali (che lo stesso
Pasolini considerava, d'altronde, opere di poesia) e a quelli
narrativi (la cui natura forzosa e dimostrativa è. a mio avviso,
ancora più lampante). Farei un'eccezione solo per Petrolio,
che non è un romanzo ma un saggio sull'impossibilità di scrivere un
romanzo e che proprio per questo è molto più "poetico"
degli altri. Perché lo strano destino di questo grande saggista, di
grande scrittore, grande intellettuale e stato quello d'essere un
poeta in tutto, nella critica come nel giornalismo, nella filologia
come nel cinema - in tutto, tranne che nella poesia.
“L'Espresso”, 22
ottobre 1995
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