Paul e Linda nel 1970 |
La notizia dello
scioglimento dei Beatles la diede Paul McCartney, il 9 aprile 1970.
Ma bisognava arrivare fino in fondo all'intervista promozionale per
l'uscita del suo primo album solista - intitolato significativamente
McCartney (niente più Lennon, niente trattino) - per leggerla
nero su bianco.
(...) D. Stai
preparando un nuovo album o un singolo coi Beatles? R. No (...) D. La
tua separazione dai Beatles è temporanea o permanente? Ha a che fare
con differenze musicali o personali? R. Differenze personali,
differenze nella gestione degli affari, differenze musicali, ma più
che altro perché mi diverto di più con la mia famiglia. Temporanea
o permanente? Non so davvero. D. In futuro Lennon-Mc Cartney
torneranno a essere una coppia di autori in attività? R. No.
Scritto da Peter Brown
della Apple, il Q.&A. venne allegato alle copie dell'ellepì
destinate ai giornalisti. E il giorno dopo il “Dail Mail” potè
titolare senza appello: Paul lascia i Beatles.
Dieci giorni prima
McCartney aveva ricevuto Ringo Starr nella sua casa di Cavendish
Avenue a Londra. Il batterista gli aveva consegnato una lettera
firmata da Lennon e Harrison: «Caro Paul, abbiamo pensato molto a
proposito dei Beatles e del tuo album - e crediamo sia una
stupidaggine che la Emi faccia uscire due dischi così importanti a
pochi giorni di distanza l'uno dall'altro (...) Così abbiamo chiesto
all'Emi di bloccare il tuo fino a giugno (...)». Uno era Mc-Cartney.
L'altro Let it Be, registrato di fronte alle macchine da presa
nel gennaio del 1969, e fermo da più di un anno. Secondo l'idea
dello stesso Paul, Let it Be - che si sarebbe dovuto chiamare
Get Back - avrebbe dovuto cogliere l'antica energia rock'n'roll dei
Beatles, i quali non suonavano insieme in pubblico dal 1966. Ma al di
là di quel che si vede nella pellicola di Micheal Lindsay-Hogg -
dalla quale furono cancellati gli innumerevoli scontri tra i quattro
- fu un massacro personale e psicologico. Musicale persino.
Paul a quel punto giocava
da solo. La sua opposizione ai metodi del nuovo manager della band
Allen Klein - dallo smantellamento della Apple alle sovraincisioni
del produttore Phil Spector sui nastri di Let it Be - si era rivelata
del tutto vana. Vano il tentativo di nominare il suocero Lee Eastman
nella stessa posizione. I rapporti con Lennon, soprattutto, si erano
definitivamente deteriorati. «Voglio soltanto - scrisse McCartney a
quest’ultimo in una lettera pubblica del novembre 1971 - che noi
quattro ci incontriamo da soli da qualche parte e firmiamo un pezzo
di carta nel quale si dice che è finita e che ci dividiamo i soldi».
E Lennon, di rimando: «Piantala di giocare a fare il buon vecchio
onesto Paul! Le tasse, chi le pagherà?». Sarebbe finita poco tempo
dopo. In tribunale.
La lettera di Lennon e
Harrison fu la classica goccia che fece traboccare e il vaso.
Sentendosi isolato, trattato come un ragazzino, Paul si incazzò
moltissimo. Cacciò di casa in malo modo Ringo Starr. Let it Be
venne spostato all'8 maggio, McCartney uscì come previsto il
17 aprile. Era un oggetto fragile, pieno di canzoni incomplete, ma
beatlesiano dall’inizio alla fine. Nel tempo, venne oscurato
dall'ultimo album dei Beatles e dal primo di John Lennon, uscito nel
settembre 1970. Lo si ascolta in questi giorni in versione
restaurata, ed è come la scoperta di una gemma a lungo dimenticata.
Paul aveva registrato
quattordici canzoni completamente da solo, durante le session di Let
it Be, con un registratore quattro piste Studer fatto trasportare
in gran segreto dagli studi di Abbey Road alla sua casa di Londra.
Con un solo microfono, pochi strumenti, senza neppure un mixer per
non condividere con nessun tecnico quella che si sarebbe rivelata una
terapia di sopravvivenza alla tumultuosa fine della sua adolescenza.
In fondo, né il Lennon che cantava «don’t believe the Beatles»
e metteva in piedi il suo psicodramma rock con Yoko e la Plastic Ono
Band, né Harrison - che a metà del 1970 aveva suonato la chitarra
per Bob Dylan nelle session di New Morning - potevano dirsi ancora
veramente beatlesiani.
Paul, invece sì. Accese
lo Studer e per impratichirsi cantò: «La la la la la lovely
Linda/with the lovely flowers in her head». Con tutto il sottile
dadaismo del caso, accompagnandosi con la chitarra acustica.
Sovraincise sulla seconda pista una chitarra solista e sulla terza
tenne il tempo battendo semplicemente con la mano su un libro. Sulla
quarta pista, finalmente, aggiunse il basso. 46 secondi. Poi passò a
That Would Be Something, un piccolo blues a metà del quale
ebbe la buffa idea di imitare con la voce la batteria che non
riusciva a suonare come voleva.
«C’è stato un
momento in cui hai pensato ‘vorrei che Ringo fosse qui per questo
break?’», si leggeva ancora nell’intervista promozionale. Paul:
«No».
Momma America fu
registrato per terzo. È un sorprendente giro funky per basso
e pianoforte che anticipa il miglior lavoro coi Wings. Per errore,
nella registrazione finì anche un’improvvisazione blues di
chitarra elettrica che non c’entrava niente ma fu ugualmente tenuta
nel disco. E così via.
Paul non aveva neppure
trent'anni, e quando la fase epica dei Beatles era decisamente
finita, il rock andava da tutt'altra parte, aveva cercato a tutti i
costi di mantenere in vita la scintilla. Aveva insistito fino allo
stremo perché i quattro tornassero a suonare insieme come ai bei
tempi, magari presentandosi a sorpresa in qualche pub di periferia:
«Potremmo chiamarci Rikki and Red Streak, o qualcosa del genere»,
diceva. Nessuno gli aveva dato retta.
Stressato e depresso,
tormentato dall'insonnia, strafatto di alcol e canne, era
disperatamente alla ricerca di una nuova normalità. Con la barba
lunga, una moglie che adorava, due bimbette appena nate, si
nascondeva quando poteva in una modesta fattoria in Scozia, a
Campbeltown, con gli animali e l’orto da coltivare. A volte
caricava la famigliola sulla Land Rover e girava le isole scozzesi,
confidando di non essere riconosciuto. Quando finalmente li
scovarono, Paul e Linda ebberola copertina di “Life”.
George Harrison ebbe
qualche parola gentile, niente più. Per John Lennon, caustico e al
picco dell'eccitazione da rockstar radicale, Paul era soltanto un
«conservatore». Può darsi. Il governo del conservatore Heath si
era appena insediato in Inghilterra. Il rock aveva messo da parte il
suo ottimismo metropolitano per fuggire nelle dimensioni dei grandi
raduni hippy e del folk rock. Non c'era musicista inglese di grido -
Fairport Convention, Incredible String Band... - che non avesse
deciso di abbandonare la città e di andarsene a suonare in una
fattoria di campagna. Nella fattoria di Campbeltown Paul compose le
sue prime canzoni del dopo Beatles. E in uno sgabuzzino della stessa
fattoria mise in piedi il «Raw Studio» dove i Wings, un anno e
mezzo dopo, provarono e registrarono.
Paradossalmente era stato
l'ultimo dei quattro Beatles a incidere un album solista. Oltre ai
singoli Give Peace a Chance e Instant Karma!, Lennon ne
aveva già incisi tre con Yoko Ono, sperimentali e del tutto
inascoltabili. Harrison ne aveva seguito le tracce con una colonna
sonora mezzo indiana e un folle ellepì per sintetizzatore solo.
Ringo Starr, per non smentirsi, aveva dato alle stampe alla fine del
marzo 1970 un ellepì di standard anni Trenta e Quaranta, stonati col
suo vocione: Sentimental Journey.
McCartney arrivò per
ultimo e in punta di piedi, come se non volesse tradire nulla e
nessuno. Tirò fuori dai suoi quaderni le canzoni che per un motivo o
per l’altro i Beatles non avevano inciso: Junk e Teddy Boy
le aveva scritte durante il viaggio in India. Hot as Sun/Glasses
risaliva addirittura al 1959. Scelse un piccolo studio di
registrazione per rifinire i nastri dello Studer su un 8 piste e qui,
incidentalmente, incise Kreen-Akrore, 4 minuti per batteria e coro
sporcato da una chitarra elettrica, ispirato a un documentario sulla
vita di una tribù di indios brasiliani.
La terapia di McCartney
fu infine completata - e non poteva che essere così - agli Abbey
Road Studios. Si era prenotato sotto il falso nome di Billy Martin e
un giorno di fine febbraio incise in perfetta solitudine, coi cori di
Linda e tutta la precisione del caso, Every Night e Man We
Was Lonely, ancora beatlesiane. E Maybe I’m Amazed: la
prima delle canzoni di «sir» Paul McCartney. Un classico
semidimenticato, bellissima ancor oggi.
“alias -il manifesto”,
30 luglio 2011
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