Con Virgilio, Orazio
rappresenta davvero l'esempio principe del poeta «nelle mani e nel
cuore di tutta l'Europa», come scrive Carlo Carena in apertura a
questo prezioso «Millennio» (Orazio, Tutte le poesie,
a cura di Paolo Fedeli, Trad. Carlo Carena, Einaudi, 2009).
Maestro di lirica e di
satira, soprattutto di lirica, Orazio deve la sua fama a
un'eccellenza stilistica in cui i lettori riconoscono subito una
chiave di lettura del mondo. Tra gli ammiratori più recenti lo ha
inteso forse meglio di tutti Auden, grande fautore della complessa
strofa lirica oraziana (d'altronde: «Non riesco a capire, da un
punto di vista strettamente edonistico, quale divertimento ci sia a
scrivere senza nessuna forma. Per giocare servono regole, altrimenti
non ci si diverte»), e insieme di quel tono distaccato e ironico, ma
non cinico, che individua il destino dell'uomo nel «guardare / a
questo mondo con un occhio lieto / ma da una prospettiva sobria»
(The Horatians, 1968: uno splendido saggio in versi). «Occhio
lieto» e «prospettiva sobria» condensano con fine pragmatismo una
tradizione critica su Orazio che il poeta stesso contribuisce
autorevolmente a instaurare. Un poeta sicuro dei suoi meriti e della
sua fama, ma altrimenti scettico rispetto a «grands projets»
radicati in impegnative ortodossie filosofiche o politiche. Epicureo
quel che basta per concedersi qualche brivido di fatalismo, certo
però non fino al punto di abbracciare un materialismo rigoroso;
augusteo con misura, dopo gli ardori giovanili che lo avevano visto
combattere a Filippi. Criticamente distaccato, "sobrio" fin
quasi alla rassegnazione, polemico senza eccessi.
C'è molto di vero in
questo ritratto (per molti versi, appunto, già un autoritratto) che
propone una precisa tendenza di lettura a scapito di altre non meno
plausibili. Privilegiarla rispondeva, nel secondo dopoguerra, a un
bisogno insieme storico ed esistenziale: quello di smarcare Orazio
dal rozzo uso pro domo che ne aveva fatto il regime offrendo
invece un punto di riferimento ideale alla generazione che temeva
l'eclissi, con la guerra, di quell'ideale «letteratura europea»
impensabile senza la lirica oraziana. In Italia questo recupero del
poeta passa soprattutto attraverso i primi lavori di un coetaneo
illustre di Carlo Carena, Antonio La Penna, che già nel '49
proponeva di rivalutare, del corpus, soprattutto le Epistole,
anzi di reinterpretare tutto Orazio proprio partendo da questi
componimenti maturi in cui si legge soprattutto lo "scacco"
subito rispetto agli ideali e le aspirazioni delle Odi.
Distacco, rinuncia,
ironia non erano certo qualità messe in rilievo dalla celebrazione
fascista del bimillenario oraziano, incastonato a metà decade, nel
1935, tra quello di Virgilio e quello di Augusto. Si preferiva
piuttosto suggellare, come fece Ettore Romagnoli solenne in
Campidoglio, il destino di Orazio vate civile, poeta eccelso sempre,
nonostante qualche intemperanza nella produzione giovanile e i
sintomi di pur nobile declino delle Epistole, ma mai come
quando celebra l'eternità di Roma, del potere di Augusto, del dolce
morire per la patria. Sul colle fatale non era evidentemente giunta
l'eco di Wilfried Owen che alla retorica del sacrificio contrappone
l'immagine di corpi martoriati e disfatti: se li vedessi «non
diresti, amico mio, con tanto impeto / a fanciulli che ardono per un
po' di gloria disperata / quella vecchia Menzogna; dulce et decorum
est /pro patria mori».
La radicalizzazione del
contrasto tra un Orazio roboante e uno intimista ha inevitabilmente
finito per lasciare in ombra momenti della sua poesia che sfuggono a
questo schema. Gli Epodi, per esempio, cui solo la critica
degli ultimi anni ha ridato ampio spazio mettendone in risalto
l'inventiva anche noir, una sensualità spesso inquieta, la
raffinatezza metaletteraria; oppure l'Orazio dionisiaco, che mentre
dichiara di non potere e non volere competere con Pindaro ne
reinterpreta genialmente il tono sublime. Su tutti questi aspetti
dell'opera oraziana informano ora con dovizia l'introduzione di Paolo
Fedeli e le sue note.
A tutti Carena dedica la
sua antica sapienza di traduttore, abilissimo nel rendere ogni
inflessione e ogni sfumatura, anche nei registri aspri che forse meno
lo attraggono. Il suo Orazio, infatti, è soprattutto l'Orazio delle
Odi, non certo quello maldestramente espropriato a scopo
celebratorio, ma il maestro della Weltliteratur nel cui nome
Giorgio Pasquali, fresco di studi in Germania, celebrava ai primi del
Novecento l'unità dello spirito europeo e anzi umano. Non a caso
nell'antologia di dipinti, tutti compresi nel mezzo secolo a cavallo
del 1800, che Carena sceglie a corredo del testo, trionfano
«grandiosità poetica e plasticità», un alone di nostalgia
preromantica che non ha ancora esplorato fino in fondo il lato oscuro
delle rovine. La resa italiana sceglie giustamente di rispettare
l'architettura formale delle odi e la campitura dei versi, ma senza
artificio e senza retorica, ricorrendo a un lessico levigato quanto
essenziale. È il frutto maturo di quella «intrinsichezza
quotidiana, sino alla familiarità se non all'impossibile
identificazione» con i grandi classici in cui risiede, per Carena,
l'opera del traduttore. Anche il suo Orazio italiano avrà il destino
dei classici.
“Il Sole 24 Ore
Domenica”, 21 giugno 2009
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