L'articolo dotto e acuto
di un grande storico dell'arte racconta e spiega una tradizione
antica, sempre nuova. (S.L.L.)
Professore di Storia
della cultura europea, il signor Genij Mitsunobu mi era stato
vivamente raccomandato da più parti come uno dei più profondi e
prestigiosi rappresentanti dell'alta cultura giapponese. Fui anzi
pregato di accompagnarlo, sin dove possibile, durante una sua visita
in Italia, destinata alla conoscenza (nuova o ripetuta) di luoghi e
monumenti rinascimentali.
Tutto andò bene, e fu
persino piacevole rivedere assieme a lui la Cappella Sistina, Villa
Adriana e il Duomo di Orvieto; tutto andò bene sino al 29 agosto,
quando avevamo deciso di fare una gita ad Urbino, luogo che Genij
Mitsunobu desiderava ardentemente conoscere: il duca Federico da
Montefeltro, il giovane Raffaello, Bramante, il Castiglione, eccetera
eccetera.
Ma il 29 era domenica, e
la sera precedente fui colto da un improvviso febbrone; la gita, il
professore dovette farla da solo, e la mattina di lunedì, quando gli
telefonai per avere notizia dell'esito della visita, mi rispose in
modo impacciato, esitante, dicendomi alla fine di non aver visto né
la Flagellazione di Piero della Francesca, né lo «Studiolo»
di Federico da Montefeitro, e di non essere neppure entrato nel
Palazzo Ducale.
Pensai a uno sciopero
selvaggio del personale di custodia; ma la ragione dell'imprevisto
cambiamento era più profonda e più antica, coincidendo con il fatto
che l'ultima domenica di agosto (e il 29 era appunto quel giorno) la
città di Urbino celebra la Festa dell'Aquilone, in memoria della
famosa poesia di Giovanni Pascoli.
Ora, si ha un bel parlare
di cultura, di acculturazione, di trapianti culturali: la tradizione
in cui si è nati e cresciuti resta sempre la più forte, riemergendo
nei momenti e nei modi più imprevisti. Per il professor Genij, la
vista degli aquiloni aveva dato un colpo di spugna alle
stratificazioni conoscitive e alle decennali fatiche di penetrare
entro un contesto di strutture mentali remote, aliene; gli aquiloni
avevano risvegliato in lui memorie ataviche, ricordi dell'infanzia,
connessioni tra il dato visibile e i simboli religiosi e sociali:
insomma, lo avevano sradicato dai colli urbinati, riportandolo a
territori più familiari e meno remoti, i territori cioè in cui
l'aquilone è un elemento essenziale della vita di tutti i giorni e
della cultura religiosa.
Davanti al suo imbarazzo
per il viaggio a vuoto non ebbi il coraggio di fare domande, per non
apparire indelicato; perciò sono rimasto con una dose di curiosità,
relativa ai tanti aspetti che l'aquilone riveste nel Paese del Sol
Levante e alle leggende che gli si riferiscono. Una di queste
racconta che un guerriero del XII secolo, Minamoto no Tame-tomo,
esiliato nell'isola di Oshima, fece fuggire suo figlio a bordo di un
grande aquilone verso la terraferma; un'altra dice che il furto delle
scaglie d'oro purissimo con cui erano rivestiti i delfini ornamentali
sul tetto del castello di Nogoya fu possibile solo con l'ausilio di
un aquilone sul quale il ladro, Kakinoki Kinsuke, si issò ad altezze
spericolate, lasciandosi poi però smascherare per il fatto di non
riuscire a non vantarsi in giro di un'impresa tanto audace.
Ma, leggende a parte, è
certo che l'aquilone venne usato, in circostanze speciali di venti
fortissimi, per issare materiale di costruzione, come le tegole del
tempio Zojo-ji nel 1689. Vero o non vero che sia (ma è una notizia
quest'ultima che sembra documentata), un fatto è certo, che
l'aquilone (o «cometa» come si diceva un tempo da noi) ha sortito
nel Giappone una inaudita varietà di forme e di colori, spesso
accompagnati da figurazioni simboliche relative alla prosperità,
alla vita lunga, alla fortuna, o da facce diaboliche come talismani
contro il male.
In certi villaggi
agricoli un'invocazione agli dèi viene scritta sulla faccia
principale, chiedendo un buon raccolto, e durante una cerimonia
autunnale piccole quantità di raccolto vengono attaccate alla coda
dei variopinti oggetti levati in volo, che i pescatori di Chiba
(sulla costa del Pacifico) innalzano dalle loro barche al ritorno da
lunghi viaggi, ognuno con l'emblema della propria famiglia, sì che
questa venga avvertita sulla spiaggia del felice ritorno.
Eppure, nonostante una
tale verità di usi e di significati, l'aquilone non è originano
delle isole giapponesi; la sua invenzione risale (per comune
accettatone) al 200 circa avanti Cristo, e in territorio cinese;
sarebbe stato il generale Han Hsin ad usarlo per misurare la distanza
tra il suo esercito e le mura di una città assediata, che lui voleva
far cadere scavando una galleria sotterranea.
Di aquiloni parla Marco
Polo durante il suo soggiorno in Cina, dove riti e varietà sono
innumerevoli. Anche oggi, nel nono giorno del nono mese si celebra la
Giornata dell'Aquilone, con un rituale complicato che nel 1866 fu
celebrato, nella sola città di Canton, da quasi 40.000 persone. Che
gli stretti rapporti commerciali e culturali tra Cina e Corea,
Thailandia, isole del Pacifico abbiano favorito la diffusione del
singolare oggetto è un fatto ben noto: quale messe di leggende e di
significati si è raccolta attorno ad esso in questi territori sempre
più lontani e sempre più distanti dalla raffinata cultura cinese!
Ma ci si chiede quando e come l'Europa ne sia venuta a conoscenza: e
qui le teorie sono più d'una.
C'è chi pensa che la via
passi per l'Arabia, attraverso l'India, e di lì giunga all'Italia;
altri credono che la diffusione sia avvenuta attraverso l'Asia
centrale; altri ancora che la diffusione sia stata possibile soltanto
nel secolo XVI, quando fu aperta la circumnavigazione dell'Africa
verso le Indie Orientali. Certo è che un manoscritto del 1346, il De
Nobilitatibus di Walter de Milemete, mostra un marchingegno
attaccato a una corda dal quale cadono su una città assediata sfere
infiammate (non diremo bombe incendiarie). Il marchingegno è una
sorta di aquilone a forma di drago o, meglio ancora, di calza
gonfiata dal vento.
E in un altro manoscritto
del 1405, il Bettifortis di Konrad Kyeser, si vedono cavalieri
al galoppo che recano, attaccati a un filo, lunghi draghi gonfiati
dall'aria, e che una specie di vite consente di innalzare o
avvicinare. Si tratta di derivazioni di quanto era già noto agli
Arabi (e a certi giocattoli dei loro bambini?). O bisogna parlare di
evoluzione di qualcosa che era già noto nel tardo Impero romano? La
risposta è, per molti scrittori, incerta, sebbene esista una prova
che, come oggetto di svago, esso era già noto all'antichità
classica; esiste infatti un vaso greco a figure rosse su fondo nero,
oggi nel Museo Nazionale di Napoli, in cui si vede una ragazza che fa
volare, tenendolo attaccato ad un filo, un aquilone triangolare.
Tuttavia, è possibile
che il «cervo volante», nella forma in cui riappare alla fine del
Medioevo, derivi da certe insegne di alcuni reparti dell'esercito
romano, che erano in metallo, a forma di drago dal profilo ondulato.
Che da essi si sia svolto un tipo simile di pennone in tessuto,
attaccato ad un filo e gonfiato dal vento durante le galoppate dei
cavalieri, è ben possibile; né è da escludersi che questo tipo,
diciamo così, occidentale, sia poi stato modificato dall'arrivo dei
modelli estremo-orientali.
A ogni modo, in Europa
l'aquilone non ha mai sortito questi significati simbolici e
religiosi che ne caratterizzano la storia in Cina e nelle culture più
o meno modellate su quella cinese. C'è da dire che in Occidente
l'aquilone ha trovato utilizzazioni e impieghi talvolta non dissimili
da quelli che da secoli conosceva l'Estremo Oriente; ad esempio nella
caccia, nella pesca, nella meteorologia o in guerra. Oggi però si
assiste, un po' dovunque ma soprattutto negli Stati Uniti, alla
ricerca di nuove forme, spesso di sorprendente aspetto, che forse, in
un prossimo futuro, porteranno a utilizzazioni per il momento
difficilmente prevedibili.
A sentire certe voci, il
cervo volante ha, in condizioni favorevoli, possibilità di volo
quasi infinite: si parla di un esemplare, lanciato da Urbino e
attaccato costantemente al suo filo, che cadde a Palma di Majorca, o
di un altro aquilone che, sempre dalla stessa fonte, viaggiò per
migliaia di chilometri, spaventando le popolazioni delle isole
Azzorre, sulle quali apparve illuminato dal sole dell'alba.
Ma forse più che di favole si tratta di speranze, di desideri di evasione, di sogni fragili, affidati a un soffio e legati a una cordicella e alla mano che la stringe.
Ma forse più che di favole si tratta di speranze, di desideri di evasione, di sogni fragili, affidati a un soffio e legati a una cordicella e alla mano che la stringe.
"L'Europeo", 4 ottobre 1982
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