Indro Montanelli è morto
cinque anni fa. Prima di morire, in occasione delle elezioni del 13
maggio 2001, dichiarò di votare per il centrosinistra. La reazione
della destra fu furibonda: quella scelta fu considerata contronatura,
«mostruosa» quasi come quella degli industriali in questo 2006.
Apparentemente, gli insulti partiti soprattutto dalle televisioni di
Berlusconi erano tutt'altro che immotivati. Se destra e sinistra
hanno ancora un senso, Montanelli era certamente un uomo di destra.
Lo era per le sue idee e per i suoi comportamenti.
A restituircene i tratti
salienti è ora un libro eccellente di Sandro Gerbi e Raffaele Liucci
(Lo stregone. La prima vita di Indro Montanelli, Einaudi,
2006) che, raccontandone benissimo «la prima vita» (quella che si
conclude nel 1957 con la morte di Longanesi), ci accompagna
attraverso la straripante quantità di articoli scritti da
Montanelli, li confronta con i suoi ricordi, ne fa risaltare la
coerenza ma anche le contraddizioni e gli errori.
Il termine del 1957 è
molto mobile; il libro infatti funziona così: tutte le varie tappe
della carriera del giornalista e della sua biografia vengono
efficacemente raccontate: la guerra d'Etiopia, la guerra civile
spagnola, la seconda guerra mondiale, la guerra fascista 1940-1943,
poi la Resistenza, l'arresto a parte dei tedeschi, la complicata fuga
in Svizzera e, infine, la guerra fredda e il suo coinvolgimento nella
rivolta ungherese del 1956. Ma tutte queste «fasi» hanno appunto
sedimentato articoli, ricordi e polemiche che si sono trascinate
negli anni, praticamente fino alla morte. Liucci e Gerbi ne seguono
il filo senza interrompere il racconto al 1957; così è ad esempio
per il «diverbio» con Angelo Del Boca sull'uso dei gas in Etiopia
da parte dei fascisti: sempre negato da Montanelli che però, alla
fine, davanti alla schiacciante documentazione offerta dallo storico,
fu costretto a confessarsi sconfitto e a riconoscere con grande
onestà intellettuale la fondatezza delle ragioni dell'avversario.
Il libro è così una
biografia per molti aspetti compiuta ed è in grado di sbalzare
nitidamente i contorni di quella destra che Montanelli incarnava,
«conservatrice e altera, sobria e meritocratica, colta e pessimista,
scettica e ironica, elegante e rigorosa, laica e non bacchettona,
diffidente della societè di massa e dei suoi umori e malumori». Al
di là di una terminologia così efficace, a me pare che la destra di
Montanelli possa essere ancorata ad alcuni elementi squisitamente
culturali, tutti riconoscibili all'interno della sua inclinazione a
riflettere sulla storia: l'antiantifascismo; l'indulgenza verso il
Mussolini «buonuomo» e verso il fascismo, - di cui negava il
carattere totalitario -, che poteva definirsi una specie di
«afascismo»; un'interpretazione buonista della legislazione
antisemita italiana; il giudizio positivo sul franchismo; un marcato
fastidio per l'antifascismo militante e la Resistenza coniugato con
l'appoggio incondizionato agli italiani «che erano stati alla
finestra», con l'attenzione non solo per i «morti sulla montagna»
(i partigiani) ma anche «per quelli che erano morti in cantina»,
gli italiani che avevano subito passivamente la guerra.
Il Montanelli del
dopoguerra apprezzava gli «apoti» di Prezzolini e ne condivideva il
disprezzo per gli italiani, la sfiducia nel loro senso civico, nella
loro moralità pubblica. «Gli italiani amano la dittatura: a) perché
così ogni italiano sa come comportarsi; b) perché può permettersi
di crearsi una piccola zona franca di anarchia e corruzione a suo
esclusivo vantaggio. La ragione per cui il fascismo non produsse mai
campi di concentramento è dovuta alla congenita propensione italiana
a lasciarsi corrompere dalle donne, dal vino e dal denaro....i
comunisti italiani sono pericolosissimi perché incorruttibili»: a
riferire queste esternazioni montanelliane era l'ambasciatrice
americana Clara Luce. Esagerazioni dell'ambasciatrice, ossessionata
dall'anticomunismo? No, perché Montanelli riproponeva gli stessi
temi in pubblico, nei suoi scritti, che in quegli anni attribuivano a
tutti gli italiani un'unica comune militanza in quello che lui
chiamava «il partito della pacchia», «una gigantesca matassa di
compromessi che soprattutto promette quello che più piace agli
italiani: il diritto per tutti coloro che alla sua ombra riescano ad
agguantare una qualche autorità, di poterne abusare».
Questa lettura del
carattere degli italiani sfociava in un pessimismo intellettuale,
temperato da una dimensione esistenziale che - per sua fortuna - non
indulgeva alla tristezza: il risultato, come suggeriscono Gerbi e
Liucci, era la sua «tendenza a obnubilare il dramma sotto il
disincanto e, talora, il sarcasmo», la sua ostinazione a chiudere i
conti con il passato, anche il più feroce, nel segno di una
rassegnata indulgenza e nell'incrollabile fiducia che tanto non
sarebbe mai cambiato niente e che lo stato delle cose presenti, pur
«turandosi il naso», restava sempre il migliore dei mondi
possibili.
Vedeva negli italiani gli
stessi difetti che scandalizzavano gli azionisti; ma mentre gli
uomini come Parri o Rosselli se ne indignavano, Montanelli di quei
difetti quasi si compiaceva, guardando con sospetto a ogni progetto
pedagogico che volesse «rifare gli italiani». Fu così uno
spettatore attento e partecipe, ma restìo a un «impegno» diretto;
con due eccezioni, due occasioni in cui il suo attivismo si impennò
bruscamente: la prima, negli anni della guerra fredda, quando,
ossessionato dal pericolo comunista, si dedicò a un improbabile
progetto golpista; la seconda quando «scese in campo» contro
Berlusconi. Prese in prestito proprio dagli azionisti che non amava
(«rispettava» molto di più i comunisti) la categoria
interpretativa del fascismo come «autobiografia della nazione»
applicandola a Berlusconi; nell'esperienza di Forza Italia
precipitavano tutti quei tratti di familismo amorale, insofferenza
per le regole, sovversivismo dei ricchi che Montanelli aveva sempre
osservato e descritto con il suo stile distaccato: questa volta, per
l'ultima volta prima di morire, il distacco si tradusse in sdegno, il
disincanto in impegno.
“La Stampa”, 1°
aprile 2006
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