Carl Gustav Jung |
Se io fossi junghiano
(che non sono, un po' per incompetenza professionale, si capisce, e
un po' e forse soprattutto, per allergia ideologicamente fondata), mi
porrei il problema delle resistenze allo junghismo, e delle relative
motivazioni. E probabilmente, ancora, direi (poiché non sarebbe una
questione soltanto nazionale) che si tratta, genericamente parlando,
di resistenze al simbolico in quanto tale, anche se variamente e
diversamente razionalizzate. Di qui, un'ipotesi certamente
arrischiata, ma seducente: che i trionfi della semiologia siano la
forma ultima, e oggi dominante, nella cultura europea globalmente
considerata, onde reprimere, con il simbolico, tutte le pulsioni
dell'inconscio di cui esso è normale veicolo. E sarebbe risposta
perfettamente ortodossa (junghianamente), mi pare, poiché tra le
preoccupazioni e i pensieri dominanti di Jung fu proprio la
distinzione netta tra semiotico e simbolico.
Si può deplorare il
tutto da un punto di vista accademico: per rimanere in Italia,
adesso, si può osservare che i competenti credibili di storia e di
scienza del simbolico sono più rari delle mosche e dei corvi
bianchi, così nell'ambito largo delle scienze umane, come in quello,
più limitato, ma non poco sintomatico, della scienza della
letteratura e dell'arte. Come «Ersatz», cioè in
sostituzione, vige un po' di discorsi intorno all'iconografia per
dive.
Il tutto meriterebbe di
essere studiato da un punto di vista più profondo (di psicologia del
profondo, e di inconscio collettivo, proprio, se non si vuole fare un
passo vero, e onesto, in direzione sociologica), con una
«Einstellung», un atteggiamento, un po' più analitica, per
l'appunto. Non voglio dire, si intende, che le resistenze a Jung
significhino immediatamente resistenze
al simbolico in quanto
tale. Dico che rientrano in questo quadro, e che non sono un buon
indizio, così inquadrate, di buona salute psichica collettiva (e,
insomma, di buona salute sociale). Se non altro, perché è lasciata
via libera a un simbolico non disciplinato, non sorvegliato, non
razionalmente gestito. Scambiato per segno, riduzionisticamente, il
simbolo si vendica. E le immagini sono piuttosto vendicative, come si
è visto molte volte, nella storia naturale dell'uomo (animale
simbolico, non segnico soltanto).
Continuando ancora un
pezzettino su questa strada, le cose, però, per me, vengono intanto
direttamente a rovesciarsi, come è giusto. Perché si arriva alla
domanda, infine, che mette in giuoco il significato di Jung e dello
junghismo (e della «jung-renaissance»). La risposta rozza, ma
suppongo non inautentica, è che Jung in blocco ha rappresentato un
enorme «ritorno del rimosso», ed è tutt'altro che spiegabile, di
conseguenza, come un accidente o un infortunio nella storia del
freudismo, e dunque come questione interna alle vicende della teoria
e della pratica psico-analitica. Non manca niente, infatti, o quasi
niente dall'alchimia all'astrologia, dalla mistica alla
«Synchronizitat», dallo yoga ai mandala, dalla tipologia
psicologica come fisionomica antimaterialistica alla parapsicologia,
dalla mistica agli Ufo — sto per dire alla psicoanalisi (cioè, a
una certa idea della psicoanalisi e dello psichismo).
Con il volume ottavo
dell'edizione Boringhieri, a disposizione da un anno, consiglierei a
qualunque connazionale di andarsi a leggere almeno le prime pagine
del Problema fondamentale della psicologia contemporanea, con
la neutralizzazione ivi operata della questione
idealismo-materialismo (anzi, mi correggo,
spiritualismo-materialismo), con la polemica contro la «psicologia
senz'anima», e poi, soprattutto, con le invettive contro lo «spirito
del tempo» (« Nulla vieta alla speculazione intellettuale di
spiegare l'indeterminazione al livello atomico con l'ipotesi di una
vita spirituale»). Dietro, ci sta sempre Shopehnauer.
Comunque, per il candido
lettore, che può temere di smarrirsi, vittima di una manovra
tendenziosa, ai margini, tengo disponibile, come ricambio
insospettabile, la conclusione dei Tipi psicologici, dove
risuona, nitidissima, la solita parola d'ordine della «destra
tradizionale»: tutti i disastri incominciano con gli immortali
principi, e la storia si oscura (perde di senso) con l'Ottantanove
(«In questa nostra epoca nella quale sulla base delle conquiste
della Rivoluzione francese, etc. etc»). Lo «spirito del tempo»
contro il quale Jung si scatena, è quello lì, naturalmente...
Adesso, formulate così
una specie di tesi e di antitesi, molto di corsa, vengo a una
possibile sintesi. E può essere la considerazione che Jung non è
affatto condannato ad essere, essendo tale qual è, manipolato in
esclusiva dalla «destra tradizionale». Forse, chi se ne intende,
potrebbe operare un po' alla maniera di Walter Benjamin, quando,
circa quarant'anni orsono, trovandosi di fronte all'eredità di
Bachofen, lanciò la parola d'ordine della «profezia nell'ambito
della scienza». Il ponte, in proposito, per non allontanarci troppo
da Jung, è nel Karl Kerény carteggiante con Thomas Mann (e
viceversa). E si tratterebbe di restaurarlo, soltanto, e di
percorrerlo, poi, sino in fondo. Insomma, di fronte alla
«jung-renaissance» che si disegna, la strategia migliore,
culturalmente, è quella di puntare sopra un rovesciamento della
gestione spiritualistica del simbolico.
Da noi, per intanto,
bisognerebbe incominciare a rileggere un po' di Vico.
“la Repubblica”, 1
settembre 1977
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