L'articolo che segue è
presentazione di una mostra parigina di cui non è agevole procurarsi
il catalogo e racconta il modificarsi ottocentesco del significato
del Gran Tour e la nuova immagine dell'Italia (che durerà fino ai
primi decenni del Novecento), non più soltanto paese di antiche
vestigia, ma di genti primitive e, a modo loro, libere e felici,
spiegando il ruolo della fotografia e della pittura che questa nuova
visione comunicano all'Europa. L'autore non si sofferma sui rapporti
tra fotografia e pittura e fa male, perché è tema che sollecita
riflessioni generali e produttive ipotesi di lavoro. Per esempio non
si dà conto dell'uso sistematico della foto come strumento del
pittore e suo modello, fatto che – a leggere altre recensioni –
la mostra del Musée d'Orsay documentava e di cui si trova ampia
traccia visiva nel sito della benemerita istituzione al seguente link. (S.L.L.)
Lo studio del Grand Tour,
il periodo di formazione che le élite europee trascorrevano nel
nostro Paese nei secoli dell'Ancien Regime e soprattutto nel
Settecento, è stata una delle mode culturali più brillanti degli
ultimi anni. Un vero diluvio di saggi, pochi repertori molto utili,
tante mostre alcune bellissime altre ripetitive. Dopo la bufera
rivoluzionaria e napoleonica, il rito riprese, ma ormai molte cose
erano cambiate e con loro anche i viaggiatori. L'Italia continuava a
rimanere, e lo rimarrà almeno sino al Viaggio in Italia del
1953 - il capolavoro allora incompreso di Rossellini con Ingrid
Bergman e George Sanders - un luogo incantato, per la bellezza
incontaminata del suo paesaggio e il fascino delle antichità.
Ma
oltre che un'accademia dove educarsi alle immutabili regole del bello
o un immenso museo a ciclo aperto a cui attingere, diventava lo
spazio di una memoria alternativa rispetto alle suggestioni della
classicità. Rappresentava sempre di più l'esaltante incontro con
una società rimasta per certi versi arcaica, dominata da spaventosi
contrasti di classe, dove l'arte si mescolava con la vita, la
bellezza con la violenza del clima e del popolo. Tutto questo
esercitava un'attrazione irresistibile, quasi fatale, sull'animo
razionale di chi proveniva dall'Europa del Nord ormai travolta dalla
rivoluzione borghese e industriale. Non rimaneva, almeno per un
brevissimo periodo della vita, che abbandonarsi al "dolce
farniente" e perdersi nelle contraddizioni di questa terra
unica, così diversa da un luogo all'altro. La nuova disposizione,
quella ottocentesca, nei confronti dell'Italia era stata anticipata
da Goethe che, nella città «piena d'allegria, di libertà, di vita»
dove «tutti siedono al sole finché non cessa di splendere», ma
anche dominata dalla ferocia di proletari spesso violenti, «costretti
tra Dio e Satana», aveva fatto proprio il detto: «Vedi Napoli e poi
muori!».
Voir l'Italie et
mourir s'intitola questa mostra straordinaria e suggestiva che,
progettata dal nuovo direttore del Musée d'Orsay Guy Cogeval insieme
a Ulrich Pohlmann, ricompone, alternando dipinti e fotografie
d'epoca, l'immagine del nostro Paese, quale doveva apparire agli
occhi dei viaggiatori nel secolo in cui una terra, dagli immensi
contrasti, dove il tempo sembrava essersi fermato, diventava con
grande fatica e tante contraddizioni, riunendosi politicamente ma non
culturalmente e sul piano sociale, una nazione. Più che il pennello
dei pittori che riproducevano i paesaggi e i costumi idealizzandoli,
è stato l'obbiettivo dei fotografi a saper cogliere sul vivo questi
contrasti restituiti attraverso l'immediatezza realistica e la
commozione dell'istantanea proprie di questo procedimento di
riproduzione allora all'inizio di un lungo percorso. La mostra
riporta alla luce, attraverso materiali splendidi e poco noti, le
opere dei moltissimi fotografi, italiani e stranieri, attivi nelle
principali città che furono la meta del viaggio in Italia a partire
dagli anni Quaranta, dimostrando come quei primi dagherrotipi e
calotipi abbiano modificato i comportamenti e la percezione dei
viaggiatori orientandone le scelte. Le raccolte fotografiche
diventarono una sorta di repertorio dei luoghi e delle cose da
visitare dato che il turista cercava la conferma di quanto aveva
visto in immagini dalla circolazione tanto più vasta di quanto non
avessero avuto, o continuassero ad avere, dipinti e stampe.
I serrati confronti tra
quadri e foto dimostrano come la fotografia che. in un primo tempo
aveva seguito le scelte e le modalità visive della pittura, si sia
presto affrancata, esplorando nuovi luoghi, puntando sui dettagli
prima poco considerati e acquistando una sua straordinaria autonomia
di linguaggio.
Questa rassegna
rappresenta dunque la riscoperta dell'originalità e dell'importanza
di questi pittori-fotografi, soprattutto quelli francesi, inglesi e
italiani che, riunendosi a partire dal 1847 nelle sale fumose del
celebre Caffè Greco, o alternativamente tra gli schiamazzi della
trattoria del Lepre, formarono la Scuola romana di fotografia. Tra di
loro ha spiccato, per la qualità artistica della sua produzione, il
veneto Giacomo Caneva le cui eccezionali vedute stanno alla pari con
quelle pittoriche del grande Ippolito Caffi.
Accanto ai paesaggi e ai
monumenti, ai dettagli delle architetture, come le pietre di Venezia
consumate e annerite dal tempo riprodotte nei commoventi dagherrotipi
di Ruskin, il vero protagonista diventa lo strano popolo italiano,
rappresentato attraverso quei tipi già immortalati dalla pittura di
genere, ma ora rivelati dall'oggettività dell'obbiettivo fotografico
in tutta la loro spie-tata naturalezza. I viaggiatori rimanevano
infatti affascinati dalla libertà con cui in Italia la vita privata
si svolgeva nella strada, soprattutto quella del volgo anarchico e
incontrollabile di Napoli nel suo quartiere più tipico attorno al
porto di Santa Lucia. Dominava la figura del "lazzarone"
entrata nell'immaginario del viaggiatore come la quintessenza
dell'indole popolare italiana contraddistinta dall'abbandonarsi al
"farniente".
Altri protagonisti, pronti a mettersi fieri
del loro fascino in posa per pittori e fotografi, furono gli scrivani
pubblici, fondamentali per una plebe analfabeta, i "pifferari”
e gli zampognari, i marionettisti. Mentre gli aitanti giovani di
Taormina esibirono senza pudore la loro nudità caravaggesca davanti
all'obbiettivo di Wilhelm von Gloeden che li rappresentò come
naturali incarnazioni del mito antico.
Eppure questo popolo
fannullone e disponibile a tutto fu protagonista di una delle
avventure più esaltanti della storia, il Risorgimento, quando, dopo
un prologo a Roma nel 1848-1849, nel giro di due anni tra il 1859 e
il 1860 venne creata l'Italia libera e unita. Attraverso le
impressionanti immagini fotografiche di Roma bombardata dai cannoni
francesi accorsi in difesa del potere temporale dei papi o delle
barricate innalzate lungo le vie di Palermo, i viaggiatori si
trovarono, in un paese senza tempo dove tutto sembrava immobile, a
contatto brutale con la storia. Quella che irrompe nel capolavoro,
che non si era più visto da tanto tempo, di Fattori. Lo
straordinario Garibaldi a Palermo, che sarà fonte
d'ispirazione per il Gattopardo di Visconti, rappresenta
l'eroe, circondato dallo stato maggiore e dalle sue camicie rosse,
mentre entra nella città liberata. È celebrato senza retorica, con
gli abiti descritti da Dumas, che era stato il reporter eccellente di
quei fatti esaltanti: il cappello «bucato da una pallottola, la
camicia rossa, i pantaloni grigi di sempre e, annodata al collo, la
sciarpa che gli ricadeva sulle spalle come un cappuccio».
“Il Sole 24 Ore –
Domenica”, 21 giugno 2009
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