Ho più di un dubbio su
questa vecchia lettura, tagliata con l’accetta, del rapporto tra
intellettuali e Stalin. “Posto” nondimeno l’articolo, inserito
nel paginone di Repubblica per il centenario del capo sovietico, per
alcune curiosità tra lo storico e l’aneddotico che contiene.
(S.L.L.)
Sono stato a Mosca la
prima volta volta, nell'agosto del 1963, al tempo culminante della
“destalinizzazione” kruscioviana, dei “casi” sollevati dalle
Memorie di Erhemburg, dall’esordio di Solzenitzyn. Era però
anche il tempo delle prime inversioni di rotta: non capivamo dove
finissero i residui del «vecchio» stalinismo e dove cominciassero i
primi embrioni del «nuovo». Discutevo, allora di tutto questo come
potevo e con chi capitava. Una mite e taciturna insegnante un giorno
replicò: « Voi non potete rendervi conto di questo.
Politicizzati e ben pasciuti, dottrinari e ben vestiti, siete ignari
di quel sentimento quotidiano e umano che è la paura: non potete
capire che cosa abbia significato uscire dal tunnel ».
Qualche mese fa ha cenato
da me una cara amica, dell'Accademia sovietica delle Scienze; s'è
parlato ancora, sempre, di questo: con tutto quel che nel
frattempo è capitato, dentro e fuori dell'Urss. Ha tagliato corto: «
Anche voi, studiosi — più o meno brillanti — di cose russe, come
i "nuovi emigrati'', per onesti e intelligenti che siano, non
avete il diritto di giudicare di questo. Non ci vivete dentro,
giocate con parole che per noi sono pesanti come macigni ».
Raccontini
edificanti
E adesso, centenario
della nascita di Iosif Vissarionovic Dugasvili, in arte Stalin,
rimango maledettamente perplesso a parlare di questo, anche se
solo in termini di «cultura». Non sono ben sicuro d'averne il
dritto. Lascerò allora da parte i discorsi su « stalinismo e
cultura » e cercherò di rendere il senso della cosa.
Michail Vasil'evic
Isakovskij è un mediocre e dignitoso poeta, che venticinque anni fa
Angelo Maria Ripellino presentava al pubblico italiano come autore
«di canzoni che procedono con scioltezza discorsiva»; tra le quali,
a noi dovrebbe essere cara almeno una romanza Katijusa, che ha
prestato le note con cui è divenuta popolare in Urss al canto
partigiano Fischia il vento, urla la bufera. Tra le altre
canzoni “orecchiabili e schiette”, Isakovskij fu autore, giusto
trent’anni fa, di una poesia meno orecchiabile e sciolta un ode per
il 70° genetliaco, A Iosif Vissarionovic Stalin: “Grande
guida del popolo sovietico / Voi sarete accanto a noi ovunque e
sempre... / Voi ci date forza ed ardimento / Voi siete nostra
insegna, verità e sostegno...”. E avanti così per tre ottave,
fino a concludere con gaia semplicità: “Grande guida d'un popolo
grande / speranza, luce e coscienza della terra tutta”.
Nel 1967 Solzenitzyn
rilevò che « molti letterati, oggi, non vorrebbero ripetere certi
loro discorsi e libri del 1949 ». Il genere letterario praticato per
l'occasione da Isakovskij era comune e diffuso: l'ode encomiastica
staliniana (beceramente modellata su archetipi tardo-settecenteschi)
ebbe singolare rigoglio per i settant’anni del Piccolo Padre. Senza
crogiolarci in scontate e squallide esemplificazioni, ricorderemo
solo con Roy Medvedev che «tema favorito dell'arte tardo-staliniana
fu l'esaltazione di Stalin»: e che il culmine si ebbe nel 1949
(quando la disposizione servile s'accompagnava agli echi della
vittoria in una guerra devastante), talché vi fu chi giunse a
proporre di scegliere il fausto genetliaco come inizio d'un nuovo
calendario, Giorno del Ringraziamento dell'Anno Uno.
Quell'anno, tra
raccontini edificanti ed epistole in versi dalla dubbia aulicità.
uscirono due solenni pubblicazioni, che oggi sono rarità
bibliografiche: una, dell'Istituto Marx-Engels-Lenin, che rievocava
per immagini l’irripetibile biografia del Festeggiato; l'altra,
del'Accademia delle Scienze (che dal 1939 lo annoverava quale membro
onorario), in cui il fior fiore dell'accademia sovietica celebrava
«il suo genio scientifico» in pressoché tutti i campi del sapere
(tra le poche discipline neglette la teologia cui pure il giovane
Dugasvili aveva dedicato non disprezzabile impegno).
Gli intellettuali che
presero parte a quest’orgia celebrativa erano spinti al meretricio
culturale più dal timore di restarne esclusi che dalla cupidità di
prebende e favori. Stalin, sostanzialmente solitario, non mancava
occasione di mettere al posto loro gli «ingegneri delle anime». Si
racconta che Aleksej Tolstoj — ex emigrato d'illustre famiglia,
che, rientrato in Urss, era divenuto uno dei big del realismo
socialista — ad un banchetto subito dopo la guerra alzasse un
brindisi in onore di Stalin, proponendogli con commossa adulazione da
darsi del tu. Ne ottenne una risposta secca: «Scherzate, signor
conte?».
Lo strambotto di
Mandel’stam
Eppure, eppure. Non so se
guardare alla pagina tragica e vergognosa dell'infatuazione
staliniana esclusivamente in chiave di «ragion servile», sia
sufficiente a darne ragione storica. Certo: di fronte a chi, come
Mandel’stam per uno strambotto più ironico che
«controrivoluzionario» («...Dove solo c'è una mezza
conversazione, / ci si ricorda del montanaro del Cremlino... ») ci
ha rimesso letteralmente la pelle, non ci sono giustificazioni da
avanzare, né distinguo da illustrare. E tuttavia intendere una
pagina grandiosamente tragica di questo nostro secolo «ramingo», e
tanto più tragica per le masse operaie e popolari che avevano
guardato all'Ottobre come inizio e modello della «liberazione del
lavoro» (così si diceva una volta), col solo metro della cinica
piaggeria, sarebbe semplicistico.
Bisogna allora fare i
conti (di nuovo: vorrei evitare i «dialoghi dei massimi sistemi»)
con quelle forme di stalinismo consapevole e «alto», che pure c'è
stato. Prendiamo il caso di Gorkij, che a suo tempo aveva saputo dire
la sua in faccia a Lenin. Rimbambimento senile, o forse non anche
disperazione d'un vinto? Certamente non semplice tornaconto.
Ma lo stalinismo di
Ejzenstein? Cos’altro fu la sua trilogia su Ivan il Terribile se
non l'elaborazione filmica più alta, colta e consapevole, d'un
tipico mito staliniano? Il grande Ejzenstejn, il regista delle
«attrazioni», che portava alla settima arte il meglio della cultura
d'avanguardia, non è stato vittima, ma co-autore dello stalinismo
culturale. E' spiegabile questo con la logica del servilismo?
Più ancora. E Pasternak?
Il Pasternak del Dottor Zivago è divenuto simbolo della
libera cultura antistalinista, prima e dopo il fatidico 1953. E'
stato anche l'unico, o quasi, che in quei maledetti anni '30 abbia
rivendicato l'autonomia dello scrittore, con tutti i rischi che
sapeva di correre. Ma Pasternak era allora altrettanto convintamente
stalinista; lo era nel senso più autentico, nel senso di guardare a
Stalin come incarnazione della Storia: forse un po' hegeliano di
destra, ma stalinismo. Non hanno mancato di rilevarlo, con la bonaria
condiscendenza che si riserva a un bambino egocentrico e un po'
irresponsabile, Il'ja Erenburg e Nadezda Mandel'stam. Tuttavia,
chissà che quel suo staliniano candore non sia simmetrico alla
«debolezza» che il «montanaro del Cremlino» provava per
Pasternak. Hanno detto: perché traduceva poeti georgiani. Sì, ma i
poeti georgiani tradotti (Jasvili, Tabidze) non è che nel frattempo
venissero trattati con i guanti.
Il vecchio
socialdemocratico Georgij Plechanov aveva scritto nel 1885 che, ove
si fosse realizzata in assenza di un'ampia partecipazione
democratica, la rivoluzione avrebbe portato a un rinnovato dispotismo
zarista sotto spoglie comuniste ». E' appunto di fronte a un
grandioso «mostro politico» di questo genere, che si sono trovate
due e tre generazioni tra le più ricche e vivaci della Russia
moderna?
“la Repubblica”, 21
dicembre 1979
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