Era amico di Martin
Luther King, di John e Robert Kennedy, aveva combattutto per la
liberazione di Nelson Mandela, aveva studiato teatro con Marlon
Brando, Tony Curtis e Walter Matthau alla scuola fondata dal regista
tedesco Erwin Piscator a New York. Aveva poi suonato e cantato con
Charlie Parker, Max Roach e Miles Davis: Harry Belafonte, cantante e
attore nero ma, innanzitutto come dice lui stesso, «un attivista
diventato artista per far sentire la sua voce in nome di tanti e tante altre».
A lui è dedicato uno dei
Tributi nell’ambito della 49esima Viennale (sempre diretta
da Hans Hurch, è in corso nella capitale austriaca dallo scorso 20
ottobre e andrà avanti fino al 2 novembre), comprende cinque titoli
della sua ampia filmografia: tre girati negli anni cinquanta (Carmen
Jones di Otto Preminger, Odds against tomorrow di Robert
Wise, The world, the flesh and the devil di Ranald
MacDougall), Uptown Saturday firmato dal suo grande amico
Sidney Poitiers nel 1974 e Kansas City di Robert Altman,
realizzato nel 1996.
Se qui si apprezzano le
sue qualità come attore, nel documentario Sing your song da
lui ideato e prodotto «per mantenere viva una memoria per gli
studenti di oggi e domani», si segue la sua vita tra interviste,
brani di film, esibizioni canore e soprattutto attraverso il suo
impegno sul piano umanitario. La regia (e il montaggio) è di Susanne
Rostock, il cui nome è noto per lavori dal forte afflato politico.
Qui la biografia di Belafonte si intreccia con cinquant’anni di
storia, da lui vissuta spesso in prima linea per lottare per i
diritti dei neri (era assieme a King alla storica marcia a
Washington, così come non si tirò indietro quando solo il fatto di
raccogliere firme per il diritto al voto ai black american
poteva mettere a repentaglio la propria vita). Ha contribuito a
combattere la fame nel mondo (sua e di Quincy Jones l’idea di We
are the world e il coro di all star del pop rock, nel
1985), denunciando ultimamente i troppi giovani neri dietro le sbarre
negli Usa, come se fosse una nuova forma di schiavitù.
Sempre contro ogni forma
di violenza, Belafonte affronta nel corso dell’incontro gli eventi
recenti della primavera araba, dove studenti e lavoratori hanno
combattuto senza armi finché i primi spari della polizia hanno
segnato l’inizio della dura repressione dello stato. Sembra che la
storia si ripeta, pensando che all’epoca in cui lui e Luther King
si conobbero, avevano rispettivamente ventisei e ventiquattro anni.
Belafonte, 84 anni
portati con eleganza e grande sense of humour, è voce
narrante del «suo» film ma non si stanca di snocciolare in pubblico
aneddoti sulla sua vita avventurosa e gli esordi teatrali, quando per
sbarcare il lunario si spendeva in mille lavoretti e uno di questi -
un appartamento pulito con molta dedizione – gli procurò due
biglietti per l’American Negro Theater. Una folgorazione, uno
spazio da lui stesso definito «luogo della verità sociale».
Riconobbe immediatamente la sua vera vocazione.
Una gavetta fatta di
mansioni come «uomo di fatica», finché arrivarono i primi piccoli
ruoli. E proprio durante una delle serate al Negro Teatre fece
amicizia con Paul Robeson, allora grande icona dell’impegno
culturale e socio-politico. «Gli artisti - ripete più volte
Belafonte a Vienna - sono i portatori della verità», perché sono
coloro che fanno arrivare al pubblico attraverso la loro arte molti
messaggi. Lo fanno cantando, dipingendo, scrivendo poesie o girando
film». «Il mondo è un palcoscenico e noi tutti siamo attori che vi
si muovono», sottolinea la voce di Banana boat, che nel ’56
risuonava in tutti i juke box e ancora oggi viene campionata da pop
star come Jason Derulo.
Per lui tutto ciò che fa
è sempre nella prospettiva dell’impegno politico-sociale, che si
trovi su un palco vero, su un set o nella realtà quotidiana, avendo
appreso che la forma di espressione artistica non è solo
entertainment ma uno sguardo sul mondo per trasmettere
qualcosa al pubblico. Sing your song, canta la tua canzone
appunto.
Ma il punto centrale per
lui è e rimane il potere. «Come gestire «l’autorità»
conquistata in anni di carriera? - si domanda - come investirla nella
tua arte? Come riuscire a informare la gente grazie a questo «potere
acquisito» senza però abusarne?». Harry Belafonte ha imparato
altre lingue per entrare in contatto più diretto, ha rifiutato di
aderire a qualsiasi partito politico, preferendo ai riflettori dello
show biz la compagnia di personaggi dall’alta statura
intellettuale. «È facile usare il potere a proprio vantaggio, a
forgiare popoli interi usandolo come arma». Ricorda la sua prima
volta a Berlino, nella città divisa, che aveva inizialmente
rifiutato di visitare per il ricordo ancora fresco dell’olocausto.
Ma il suo distributore, un uomo austriaco amante di musica classica,
gli aveva fatto capire che stava punendo le persone sbagliate, perché
quei giovani andavano aiutati a crescere. E davanti a quel pubblico
pieno di aspettative, estremamente generoso nei suoi confronti,
Belafonte intona brani di forte impatto sociale, un modo per
incoraggiare l’ascoltatore e infondere ottimismo, nella vita, nei
lavori, superando così le situazioni difficili.
Curiosa la lunga
gestazione di Sing your song, la cui idea originaria nasce
dopo la morte di Marlon Brando, un altro che si era fatto cassa di
risonanza dei diritti dei derelitti, «di chi non ne aveva», dei
nativi americani. Spendendosi spesso e volentieri anche a favore del
movimento per il black power.
Un impegno importante che
rischiava di essere dimenticato, così Belafonte ha deciso di
incontrare via via personaggi che avevano conosciuto entrambi,
sommando oltre settecento ore di girato, consegnandole poi a Susanne
Rostock. È nata così la sequenza iniziale, un montaggio veloce di
scontri, tra ieri e oggi, con la silhouette di Belafonte che si
staglia nel mezzo del caos urlando: You really pissed me off!
Un intento con cui questo guerriero delle arti per l’umanità si
sveglia tutte le mattine: «non gliela darò mai vinta!»
“il manifesto”, 26
ottobre 2011
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