26.9.14

Memorie. La guerra libica di Enver Pascià (Giampaolo Calchi Novati)

Enver Pascià (1881 - 1922)
Malgrado i risorgenti tabù, la nostra cultura è ancora in grado di presentare e studiare l'«altra parte» di quel mondo, «terzo» per posizione e definizione, con cui il Nord, e quindi anche l'Italia, si trova di nuovo ai ferri corti. Si tratta proprio della Libia, negli anni della guerra di conquista del 1911-12. L'interlocutore è quell'Enver, promosso sul campo da Bey a Pascià per i suoi meriti di condottiero, inviato in Libia dal califfo ottomano per organizzare la guerriglia anti-italiana nella zona di Derna. Un «nemico», oggetto come tale, allora, di denigrazione e apprezzamenti offensivi da parte della stampa italiana, e che emerge invece dalle pagine del suo diario come un combattente motivato ed equilibrato: partì dalla Libia nel novembre 1912 senza essere stato sconfitto, scavalcato dalla pace firmata con l'Italia a Ouchy dalla Turchia e preoccupato dagli avvenimenti che minacciavano ormai direttamente la sopravvivenza della stessa Turchia.
Il diario di Enver (Enver Pascià, Diario della guerra libica, a cura di Salvatore Bono, Cappelli, 1986) uno dei leaders dei «giovani turchi», membro del triumvirato che governò la Turchia dal 1913 alla sconfitta nella guerra, è tradotto e riproposto da Bono partendo dal testo tedesco, che è forse l'originale o una trascrizione, ma che in ogni modo è l'unico testo disponibile, da cui sono state ricavate anche le recenti traduzioni in turco e in arabo. Occupa uno spazio temporale di poco più di un anno, dal 4 ottobre 1911 al 25 novembre 1912. Sullo sfondo della guerra — condotta secondo la tattica che sarebbe poi divenuta abituale ai movimenti anticoloniali — c'è la descrizione di un popolo che attraverso la resistenza cerca di diventare nazione e Stato. Il Gran Senusso, con cui Enver stabilisce un rapporto più che cordiale, era pronto a fornire una guida insieme culturale e spirituale. Enver è un turco, quasi un occupante lui stesso, ma sopperisce con gli ideali panottomani e panislamici, fino ad identificarsi con la «patria» libica, rivalutando giorno dopo giorno i valori degli arabi, verso cui verosimilmente la sua educazione «europeizzante» non lo predisponeva bene.
La psicologia che le pagine di Enver rivelano è ovviamente complessa. Che faceva l'ex-addetto militare dell'Impero Ottomano a Berlino, e animatore del Comitato unione e progresso, nel deserto della Cirenaica? Una delle ultime notazioni è rivelatrice: «Da una parte non posso abbandonare questo paese, dall'altra non posso nemmeno mancare alla mia patria, che ha urgente bisogno di me». Donde un proposito in qualche modo rivoluzionario:«Costituirò qui un piccolo Stato indipendente». In questa vocazione all'indipendenza, al limite anche contro l'Impero Ottomano ormai al tramonto (ma Enver era tutt'altro che rassegnato alla sua sparizione), sta la «modernità» del pensiero di Enver Pascià. Nello stesso tempo, però, quella trasposizione di ruoli tradisce le carenze della risposta che la Libia in quanto tale era in grado di opporre alla violenza che le veniva portata dall'Italia. E il fallimento - vent'anni dopo — della resistenza senussita non sarebbe stato sufficiente a colmare tutti i vuoti.
Sulle colpe dell'Italia l'autore del diario non ha nessun dubbio. Enver arriva anche ad inquadrare l'aggressione in una dimensione che, sia pure entro confini un po' unilaterali (gli interessi del Banco di Roma), mira all'imperialismo. Verso gli italiani che combattono in Libia il giudizio dovrebbe essere obiettivo: i soldati sono vili perché non combattono (ma non è poi un male se quei «poveri» mandati a combattere contro altri poveri si tirano indietro), gli ufficiali sono capaci, manca una strategia unitaria. Più severa è la sua opinione per l'Italia ufficiale che arriva in Libia attraverso i suoi organi di stampa e la propaganda:«Mentono e svisano tutto; ma non val la pena di prendersela». Solo gli arabi comunque hanno diritto di dire che si battono per l'onore (della patria e dell'Isiam).
C'è un altro punto su cui la critica di Enver precorre i problemi. La difesa dell'indipendenza, della Libia o dell'Impero Ottomano, comporta di far guerra all'Europa, o meglio di reagire alla guerra che esporta l'Europa, ma l'Europa è anche la fonte di una «civiltà» a cui Enver personalmente e con lui l'élite che egli rappresenta è sensibile. Per certi aspetti è un conflitto contro natura. Ma inevitabile. Così come inevitabile appare a Enver — dalla sua prospettiva di «resistente» a fianco degli arabi — la degradazione della civiltà arabo-islamica che il contatto con l'Occidente finirà per provocare.

Poco più di un'intuizione, ma il dramma del colonialismo (e della decolonizzazione) non avrebbe più lasciato la sfortunata terra libica.

"il manifesto", ritaglio senza data, ma 1986

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