Il Gran Kan ha sognato
una città: la descrive a Marco Polo:
- Il porto è
esposto a settentrione, in ombra. Le banchine sono alte sull'acqua
nera che sbatte contro le murate; vi scendono scale di pietra
scivolose d'alghe. Barche spalmate di catrame aspettano all'ormeggio
i partenti che s'attardano sulla calata a dire addio alle famiglie. I
commiati si svolgono in silenzio ma con lacrime. Fa freddo; tutti
portano scialli sulla testa. Un richiamo del barcaiolo tronca gli
indugi; il viaggiatore si rannicchia a prua, s'allontana guardando
verso il capannello dei rimasti; da riva già non si distinguono i
lineamenti; c'è foschia; la barca accosta un bastimento all'ancora;
sulla scaletta sale una figura rimpicciolita; sparisce; si sente
alzare la catena arrugginita che raschia contro la cubia. I rimasti
s'affacciano agli spalti sopra la scogliera del molo, per seguire con
gli occhi la nave fino a che doppia il capo; agitano un'ultima volta
un cencio bianco.
- Mettiti in
viaggio, esplora tutte le coste e cerca questa città, - dice il Kan
a Marco. - Poi torna a dirmi se il mio sogno risponde al vero”.
- Perdonami,
signore: non c'è dubbio che presto o tardi m'imbarcherò a quel
molo, - dice Marco, - ma non tornerò a riferirtelo. La città esiste
e ha un semplice segreto: conosce solo partenze e non ritorni”.
Le
città invisibili, Einaudi, 1972
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