L'articolo a mia firma
che segue, da un “micropolis” del 1999, racconta la conclusione
di un anno scolastico in una scuola perugina, e insieme segna per me
il commiato da un mestiere praticato per alcuni decenni, da un mondo
in cui ero entrato quasi in fasce e da cui non ero più uscito. La
cronaca mi pare svolta puntualmente, la riflessione non mi sembra
granché; la lettura tuttavia può essere utile a chi ancora vive in
quel mondo per fare il punto, per verificare le trasformazioni
recenti, credo grandi. (S.L.L. - gennaio 2016)
Un corridoio del liceo classico "Annibale Mariotti" di Perugia |
A volte i
mutamenti di clima politico e culturale sono anticipati da piccoli
segnali, a cui si tende a dare poca importanza, ma che sono forse una
spia più efficace di tanti studi sociologici. Ho avuto la sensazione
precisa di trovarmi di fronte a qualcuno di codesti segnali, in
questi giorni di fine anno scolastico in cui mi preparo a lasciare il
mestiere d'insegnante che ho praticato per trent'anni.
Nella scuola
ove esercito, il Mariotti di Perugia, è tradizione concludere le
lezioni con una cerimonia: si premiano i vincitori delle borse di
studio e delle gare sportive, si dà conto dei successi conseguiti,
si mettono in mostra le glorie. La cosa dovrebbe esaltare l'orgoglio
dell'appartenenza e lo spirito di corpo negli insegnanti e negli
studenti, ma non sempre funziona. Il rito, del resto, ha conosciuto
alti e bassi: ci sono stati anni in cui è caduto in disuso, anni in
cui si è compiuto in forma stanca e dimessa, anni in cui, per
l'effetto convergente di spinte interne ed esterne, ha riscosso
successi di partecipazione, suscitato commozioni ed entusiasmi più o
meno autentici, ottenuto spazi nella stampa e nelle televisioni
locali. L'anno scorso per esempio c'erano il sindaco, il comandante
dei carabinieri, il provveditore agli studi, assessori e deputati
nella Sala dei Notari affollata, quest'anno, invece, la premiazione
si è svolta in sordina, il 9 giugno, uno dei giorni più caldi della
campagna elettorale, nel salone della biblioteca dell'istituto. Per
una sorta di par condicio applicata al mondo scolastico, gli
organizzatori hanno limitato gli inviti a genitori e sponsor dei
premi, onde evitare una peraltro inutile passerella di notabili.
Introduce,
come d'obbligo, il preside, che ha il compito di tracciare il
bilancio dell'anno scolastico appena concluso. Non parla della
“normale” attività della scuola: la sua attenzione è tutta
rivolta ai cosiddetti progetti, il “Paideia”, l' “Aristotelion”
e consimili, agli spettacoli teatrali, alle gare vinte dai “nostri”
atleti, al successo che l'orchestra da camera ed il coro hanno
ottenuto nei festival della Mitteleuropa. I suoi calorosi elogi e
ringraziamenti, oltre che agli sponsor, vanno esclusivamente agli
studenti entusiasti ed agli insegnanti iperattivi nel “para” e
nell' “extra”, cui va ascritto il merito di aver fatto
risplendere lo stendardo del liceo nella città, nella regione, in
Italia e nel mondo.
Parlano
poi i rappresentanti degli studenti. Una ragazza del
Consiglio d'Istituto sobriamente lamenta una partecipazione
studentesca ancora limitata alle pur valide iniziative di
rinnovamento della scuola. Un giovanotto, poi, racconta della Consulta
Provinciale degli studenti: “E’ poco conosciuta - spiega - ma
abbiamo una struttura interna efficientissima, un presidente, quattro
vicepresidenti, sei presidenti di commissione”. Nella sala s'ode
una voce, forse di un insegnante: “Come ai tempi della DC!”; ma
lo studente non sente o fa finta di non sentire, è probabile che
ignori del tutto i fasti del doroteismo e le moltiplicazioni delle
presidenze e perciò non intende l'allusione. Conclude: “Siamo noi
i protagonisti!”. Parla un terzo studente il quale chiarisce che
tra le glorie del protagonismo studentesco ci sono la manifestazione
per la sede del liceo ed i venti giorni di occupazione dell'istituto,
sulla cui efficacia dimostra qualche dubbio. C'è
qualche brusio di disapprovazione.
La cerimonia
prosegue con consegne di medaglie, coppe e coppette, canti,
chitarrate e discorsetti di insegnanti sui vari progetti, fino alle
sua conclusione.
Gli
insegnanti intanto parlano d'altro, di fasce, di crediti, di debiti,
di decimali. Sono in corso gli scrutini e, poveretti, sono alle prese
con la prima applicazione delle norme del nuovo esame di stato. Si
sono fatti centinaia di corsi di aggiornamento in provincia, convegni
di presidi ed insegnanti volenterosi, si sono distribuiti opuscoli e
fascicoli pieni di spiegazioni, con tabelle, schemi ed esempi, ma
l'interpretazione resta controversa e da viale Trastevere arrivano,
un giorno sì un giorno no, circolari ed ordinanze di chiarimento,
che sono a loro volta di incerta interpretazione. Una delle questioni
più dibattute riguarda il cosiddetto CF (credito formativo),
innovazione così cara al ministro da farne oggetto di pubblicità
televisiva. Nello spot che propaganda il nuovo esame come più serio
e completo la voce parlante diretta agli studenti recita: “Potrai
far valere le competenze conseguite a scuola (Pausa)
ed anche fuori dalla scuola (Nuova pausa)”.
La cosa è in apparenza semplice: nel voto d'esame alcuni punti
(pochi per fortuna, al massimo 5 su 100) sono assegnati sulla base di
esperienze formative certificate svolte fuori dalla scuola: attività
culturali, partecipazioni a corsi, volontariato, manifestazioni
sportive e via di seguito. Gli ispettori che sono andati in giro ad
illustrare la cosa portano come caso esemplare quello dello studente
che vince la medaglia d'oro alle Olimpiadi ed aggiungono che non si
può valutare allo stesso modo il ragazzo che ha frequentato
il corso di nuoto nella piscina di quartiere.
La conseguenza di questa
innovazione è che s'è, fin dall'inizio, creata una discriminazione
tra chi ha potuto certificare tante attività e chi no (premiando
così il costume piccolo borghese di mammine e babbini che stressano
figli e figlie con corsi di lingua, di danza, di nuoto, di ginnastica
ritmica, da cui il più delle volte i ragazzi escono nauseati e
rimbecilliti), un'altra discriminazione tra chi ha partecipato a
consimili attività svolte a scuola e chi invece le ha svolte fuori
(il corso di giornalismo seguito a scuola non vale credito formativo,
tutt'al più credito scolastico, quello svolto fuori sì), ma creando
soprattutto una corsa alla certificazione compiacente ed una
difficoltà assoluta per gli insegnanti a valutare la qualità delle
esperienze fatte, garantite dagli enti più vari e stravaganti, dalle
parrocchie che attestano il volontariato sociale ai Centri Studi
sulla Cucina del Mali.
Si ha un bel dire che,
alla fine, queste esperienze sul voto incidono poco: il messaggio che
giunge agli studenti ed alle famiglie è diverso e di sicuro non
molto educativo, ha però il fascino dell'America (è lì che il
successo scolastico, come mostrano film e telefilm, non dipende
soltanto dalla conoscenza della storia, della grammatica o della
matematica, ma anche dalle vittorie nei tornei di basket o di
scacchi) ed è perciò suggestivo ed efficace.
Non sono mancati neanche
al Mariotti i casi di ragazzi che all'andazzo si sono ribellati, uno
studente ed una studentessa, notoriamente impegnati lui nella Lega
Ambiente, lei in Mani Tese, che si sono rifiutati di certificare il
loro volontariato, con l'obiezione elementare che se è volontariato
si fa gratis: mosche bianche, casi pressoché patologici di moralismo
giovanile, quasi incomprensibili nel tempo della competitività
totale.
L'ultima appassionata
discussione tra insegnanti riguarda la Commissione del POF. Dovrebbe
significare Piano dell'Offerta Formativa, ma non ne sono del tutto
sicuro: da qualche anno nelle scuole è invalso l'uso sistematico di
sigle orribili e talora incomprensibili, una sciatteria importata
nelle scuole dalle caserme, così ci sono il Cd'I, il CS, il CF, la
CPS, i PEI, gli IDEI e, da ultimo, il POF, per l'appunto. Il nuovo
contratto promette che da qui a qualche anno si premieranno più
consistentemente gli insegnanti più bravi ed impegnati, e le
cosiddette figure di sistema, quelli che fanno il coordinamento
didattico, che curano gli scambi culturali, i laboratori, i rapporti
con le famiglie, etc., ma la materia è tutta da regolare. I presidi
intanto, inseriti per le legge nella dirigenza statale ed imboniti da
qualche sociologo imbecille che prospetta per loro un ruolo di
manager, cercano di controllare loro le nomine di commissioni di
studio e l'attribuzione di responsabilità.
Fino a un paio di anni fa
questi ruoli erano rogne da scansare, ci si entrava per volontariato,
autoproponendosi, e chi li ricopriva era al tempo stesso oggetto di
ammirazione per la sua abnegazione missionaria e di compianto, adesso
c'è la corsa ad occuparli, ma i presidi vogliono decidere loro. Da
noi non è stato così: il preside s'è tenuto signorilmente alla
larga dalla questione ed ha lasciato che il vicepreside, eletto dagli
insegnanti, formulasse lui una proposta. La cosa ha comunque
suscitato lamentele.
Gli studenti si
arrabattano con i certificati per cinque punti, gli insegnanti si
spintonano per svolgere attività preminentemente burocratiche e
sovente inutili per cinque lire. Così va il mondo.
Lo stesso
giorno in cui i docenti nel loro collegio si impegnano in queste
discussioni la scuola, che ha già chiuso i battenti per le lezioni,
è animata da una folta presenza di studenti, cinquanta, forse cento.
Sono venuti per l'IG Students, ove la sigla vale Imprenditoria
Giovanile. Il ministro Bassolino ha raccontato in televisione che si
tratta di una grande operazione educativa: i ragazzi sono sollecitati
a costruire un'impresa che escogiti un prodotto e lo venda sul
mercato. C'è un piccolo rischio d'impresa, una milionata da
raccogliere tra gli studenti che vi partecipano in gruppi di 10-20,
tutto il resto è simulazione. C'è chi ha escogitato pantofole con
la lampadina, chi adesivi dalle forme più bislacche per
personalizzare i diari, chi maglie colorate, ed è riuscito a vendere
qualche pezzo con l'incoraggiamento dell'istituzione. Si dice che
così si educhi la voglia e la capacità di mettersi in proprio dopo
la scuola, di inventarsi il lavoro. Da quel che se ne sente e se ne
vede la cosa è sostanzialmente un gioco, un gioco di società e di
simulazione, una sorta di caccia al tesoro, un moderno Monòpoli
proiettato sul territorio. Ma tutto fa brodo.
Questa la non
commendevole cronaca dei giorni di fine scuola.
La domanda è: di quali
processi possono essere segnali questi fatterelli e quelli analoghi
verificatisi in tante altre scuole? Intanto di un indirizzo politico
e burocratico che, pur tra tante ambiguità, ha scelto il sistema
americano.
Si critica, e
giustamente, la contraddizione tra la conclamata autonomia delle
scuole e il mantenimento di un governo centralistico, in cui sono
ministri, direttori generali, ispettori e provveditori e presidi,
sulla linea della piramide gerarchica e con l'uso incessante di
ordinanze e circolari, ad obbligare le comunità scolastiche ad
essere autonome.
C'è contraddizione, ed è
segno di pressapochismo, tra la dichiarazione di far le scuole il
centro prevalente, se non unico, della formazione, arricchendole di
tante attività sportive, ricreative, sociali, culturali, dentro e
fuori dal curricolo, e la valorizzazione nel voto d'esame di quel che
si fa o si dichiara di fare fuori dalla scuola. Resta il fatto che la
tendenza prevalente è la scoperta dell'America, l'imitazione
acritica di un modello che molti studi seri denunciano come scadente.
A questa politica
corrisponde forse una sorta di pedagogia governativa che valorizza
l'esperienza, il momento, il frammento rispetto alla costruzione
unitaria; anche di questo indirizzo si riconoscono molti segnali. Ma
sarà il caso di scriverne un'altra volta, quando, in maniera meno
soggettiva, nei prossimi mesi, proveremo a fare un bilancio sullo
svolgimento in Umbria del nuovo esame di stato e cercheremo insieme
di mettere a confronto le intenzioni con gli effetti.
micropolis, giugno1999
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