L'impiccagione di Cesare Battisti. Lo si vede in piedi sotto il patibolo, nella divisa dei volontari italiani, come fu suo ultimo desiderio |
Attraverso la riscoperta
di autori e testimoni rimossi o volutamente fraintesi, di documenti e
memorie finalmente veritieri sui Vinti di Caporetto e sulla
tragica frattura che aveva diviso - e non unito - gli italiani, si
impose lentamente presso l'opinione pubblica una percezione
completamente diversa della prima guerra mondiale, finalmente
realistica e non più mitologica e trionfale.
Un «fascio» di
storie
Abbiamo parlato di
percezione, non a caso, e proprio questo è l'elemento centrale della
nuova proposta storiografica di Isnenghi (Storia d'Italia. I fatti
e le percezioni dal Risorgimento alla società dello spettacolo,
Laterza 2011, pp.673, euro 30), che dispone in parallelo storia reale
e storia percepita. Un tema quanto mai attuale, in un'epoca dove la
storia percepita attraverso il discorso pubblico sembra prevalere
nettamente sulla storia reale, con tutte le implicazioni nuove che il
libro affronta e che qui discuteremo brevemente.
Ma prima diciamo subito
che l'opera risulta leggibilissima, malgrado gli eccessi di
affabulazione e le citazioni letterarie sterminate che sono la cifra
abituale della prosa di Isnenghi; e se il libro per dimensioni e
andamento è destinato al novero, come si diceva un tempo, delle
«persone colte» (molto più ampio di quanto il mercato pigramente
immagini), delinea pure in termini suggestivi una visione della
storia d'Italia molto particolare e personale, che raccoglie e
ricompone numerosi scritti degli ultimi decenni, presentandosi come
una summa del pensiero dell'autore sulla storia italiana.
Risorgimento e fascismo
sono «in sostanza» le uniche epoche che attirano interesse da parte
degli osservatori stranieri, si dice nell'introduzione (e il fascismo
«è anche il fascio delle storie precedenti, reinterpretate e
accorpate»). E la struttura dell'opera dedica infatti uno spazio
ristretto e avaro all'Italia repubblicana, che forse meno si presta
al gioco di vicende individuali destinate a diventare esemplari della
percezione dei protagonisti della storia nel tempo. Laddove questa
strada viene tentata, gli esiti non sono veramente significativi: a
parte Guareschi, da tempo immemorabile assunto a scultore di
caratteri profondi dell'Italia della ricostruzione, le vicende di
Ansaldo e di Longanesi non sembrano rappresentative di una vicenda
collettiva, così come il percorso di Cucchi e Magnani non sembra
riassorbire in sé tutto l'universo del socialismo e del comunismo in
età repubblicana.
Non ci sono, qui, storie
veramente esemplari come quella di Italia Donati, al tempo stesso
eroina e vittima, come donna e come maestra della scuola pubblica, in
una età «liberale» che tentava di costruire progresso ed
emancipazione al prezzo di troppe fatiche e troppe ferite.
Osservatorio veneto
Ma gli squilibri più
evidenti sono nella dimensione «geografica» dell'opera: quella di
Isnenghi è una storia d'Italia che, dopo un breve cenno iniziale al
brigantaggio e a Francesco De Sanctis, si svolge interamente a nord
del Volturno, si sofferma raramente e con evidente disagio
nell'odiata capitale dei preti, e include a pieno titolo l'Atene
italiana in riva d'Arno. Ma il suo cuore è tutto al di là della
Linea Gotica, ed è un cuore che pulsa rilassato e familiare nel
Triveneto. L'osservatorio veneto è peraltro decisivo per consentire
all'autore di porre con forza una delle poche costanti di fondo
unitarie della sua Italia: la doppia cittadinanza - doppia e quindi
«dimezzata» - di cattolico e italiano, che ogni connazionale
porterebbe con sé: «l'anomalia italiana più incisiva, perché
strutturale e immanente» («potrei dire schiettamente che questa è
un'opera anticlericale», si dichiara nel Preambolo).
Questo vale anche in
epoca risorgimentale e «liberale», al di là della laicità
professata dalle classi dirigenti, unita a un moderatismo sociale che
non disdegna l'apporto clericale al contenimento delle possibili
turbative sociali. In una Italia così strutturata, non sorprende che
«il» romanzo della nuova Italia divenga per definizione I
promessi sposi, anziché Le confessioni di un italiano di
Ippolito Nievo, troppo nutrito degli echi di rivoluzione e modernità
appena intesi, fuori dalla cappa soffocante della morale
tradizionale. A fine secolo, la lunga e tormentata vicenda di Antonio
Fogazzaro, così connessa alla «sfortuna» del modernismo presso le
gerarchie ecclesiastiche e presso la stessa cultura laica, sembrerà
confermare l'impossibilità di una autoriforma cattolica, e il
«vivere da cattolici» non lascerà altra strada agli innovatori che
la disposizione finale e rassegnata a «sbagliare con la Chiesa».
Lo spazio maggiore, in
proporzione, è dedicato fondatamente alla prima guerra mondiale, a
ciò che la precede come al suo lungo strascico che si concluderà
con l'avvento di Mussolini, «costola strappata alla sinistra per
governare il trapasso dalla società dei notabili alla società di
massa».
Tra Battisti e De
Gasperi
L'interventismo è
certamente una minoranza, così come era stata minoranza l'Italia del
Risorgimento, ma la differenza di fondo, nota Isnenghi, è che qui la
maggioranza non ha più facoltà di rimanere assente e in disparte,
ma viene trascinata con la forza in una guerra che non vuole e non
capisce. Qui le storie dei singoli, piccoli e grandi, assumono
davvero un rilievo che svela e illumina i retroscena più ascosi
della «grande storia». Le studentesse triestine che scrivono temi
assai poco imbevuti di irredentismo bensì fedeli all'Impero
multinazionale, i sacerdoti di Asiago giustiziati perché considerati
austriacanti, il generale Cadorna e gli alti comandi, la guerra degli
intellettuali e quella dei fanti; e su tutto il meccanismo infernale
delle decimazioni e la sua logica contorta di tenere alto il morale
deprimendolo, attraverso un meccanismo di terrore codificato e
burocratizzato, e infine accettato da tutti. Più ancora che Trieste
è Trento che pare emergere come luogo esemplare. Qui si gioca una
delle tante vicende di Italie parallele e forse alternative
ricorrenti nel libro, impersonata dai due deputati degli italiani
d'Austria, Cesare Battisti e Alcide de Gasperi, il socialista
condannato a morte per il suo patriottismo e il politico che rimane
nel parlamento di Vienna, con tiepido fervore verso la guerra degli
italiani.
Siamo su un terreno
scivoloso, che richiama alla memoria vecchie prime pagine dell'Unità
dei primi anni Cinquanta, quelle con la foto di Togliatti in divisa
da alpino contrapposto al cancelliere austriacante. Ma Isnenghi si
pone il dubbio se non sia proprio De Gasperi il rappresentante
«normale» della sua gente e del suo popolo, che «nuota» a suo
agio fra contadini e parroci di una terra governata per secoli da un
vescovo principe. Il personaggio di Cesare Battisti torna più volte,
ipotizzato - se sopravvissuto - come il possibile interprete di una
«terza via» nel dopoguerra italiano al posto dello sbiadito Ivanoe
Bonomi, capace di assorbire e sterilizzare le istanze del suo vecchio
compagno Mussolini; e poi ancora, a catastrofe avvenuta, accostato
«in simbiosi antifascista» a Giacomo Matteotti come uomo-simbolo
del socialismo democratico, attraverso le pagine di Salvemini: dove
però la confluenza retorica del patriota più fervido tra i
socialisti e del più risoluto oppositore della guerra, «impensabile
in precedenza», è ormai possibile perché il dopoguerra si è
chiuso, ma si è concluso con una sconfitta duratura.
A prescindere. È la
frase di Totò che ritorna più volte, per descrivere gli assetti
mentali e culturali stabili nelle molte Italie, da quelle liberali,
clericali e socialiste del post-Risorgimento fino al tempo di
Berlusconi su cui la storia si arresta. Italie «a prescindere»,
fatte di molte e ricorrenti conventio ad excludendum, che si
nutrono di opposte e convergenti reticenze, dove la persistenza
sembra prevalere, alla lunga, sui mutamenti, e in ogni caso riemerge
con fattezze nuove dopo le eclissi anche durature. Un meccanismo che
non deprime, ma esalta la partecipazione alla politica, tanto più
massiccia in quanto innervata su odi e timori forse più forti di
fedi e convincimenti.
Tempeste
sentimentali
Qui si può riprendere il
discorso sulla storia «percepita» da cui eravamo partiti. È
evidente che in una Italia siffatta la percezione della storia gioca
un ruolo fondamentale nel definire sé, il proprio gruppo, la propria
appartenenza, passato e futuro assieme al presente, e i mille rivoli
della storia italiana descritti in quest'opera esemplificano bene
quest'assunto. Nel frattempo, però, la «percezione» del problema
da parte dell'autore è in apparenza cambiata, e se ne dà conto
nelle pagine introduttive. Sottolineo apparentemente perché le nuove
preoccupazioni che lo spirito del tempo hanno imposto non mutano in
nulla, a ben vedere, l'impianto di questa storia, che infatti viene
proposta così come è stata elaborata nel tempo.
Ma non è un caso che gli
storici che più avevano operato sul terreno della memoria (Pierre
Nora in Francia e Mario Isnenghi in Italia) abbiano dovuto entrambi
prendere posizioni nette contro l'abuso di una memoria che sembra
contrapporsi alla storia o pretende di sostituirsi ad essa. La storia
percepita oggi sia attraverso la chiacchiera mediatica, sia
attraverso l'abuso di memoria pubblica ossessiva e prescrittiva sta
soffocando la storia vera, frutto sempre di interpretazioni, ma non
di arbitrio, partito preso, stravaganza o fantasticheria. Il richiamo
ai fatti che Isnenghi sottolinea con forza, non ha in sé alcuna
ingenuità tardo-positivistica, ma nasce dalla consapevolezza che
l'enfatizzazione della memoria ha aperto la strada al «relativismo
soggettivista», come scriveva già nella nuova edizione dei Luoghi
della memoria.
Al tema dell'abuso -
colpevole o inconsapevole - di memoria dedica riflessioni importanti
anche Giovanni De Luna (La repubblica del dolore. Le memorie di
un'Italia divisa, Feltrinelli 2011, pp. 201, euro 15), che
riprende temi trattati anche su questo giornale attorno alla
«recintazione» della memoria pubblica da parte degli stati e alla
«vittimizzazione» del ricordo attraverso l'inflazione di giornate
della memoria sempre meno incisive perché inflazionate e ridondanti.
Anche qui, torna la contrapposizione tra memoria e conoscenza
storica: «più storia e meno memoria vorrebbe dire distanziarsi
dalla tempesta sentimentale che imperversa sulle nostre istituzioni,
recuperare un rapporto con il passato più problematico, più
critico, più consapevole».
Il passato di una
comunità
A me sembra si possa
aggiungere che nulla del lungo lavoro operato sulla memoria da tanti
studiosi vada smarrito, anzi andrebbe rivendicato come una
acquisizione da cui non tornare indietro; ma deve essere anch'esso
storicizzato, assunto come una dimensione critica da cui la storia
non dovrebbe prescindere. Le dinamiche della memoria pubblica hanno
sempre avuto - e hanno a maggior ragione oggi - una logica del tutto
peculiare, non «fanno» storia ma dovrebbero essere oggetto di
storia, per quello che svelano e quello che sottintendono nel modo in
cui una comunità sceglie di commemorare il suo passato.
il manifesto 28 giugno
2011
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