«Il socialismo, il
comunismo, o comunque vogliate chiamarli, nel convertire la proprietà
privata in pubblica ricchezza, e sostituendo la competizione con la
cooperazione, restituiranno alla società la sua giusta condizione di
organismo del tutto sano, e assicureranno il benessere materiale di
ciascun membro della comunità». Sembrano parole di un militante
d’altri tempi, e lo sono, ma non appartengono a un personaggio che
siamo soliti definire «di sinistra». Proseguendo nella lettura, ci
imbattiamo in considerazioni altre: «perché si arrivi a
un’esistenza sviluppata al suo massimo grado di perfezione, c’è
bisogno di qualcos’altro. C’è bisogno di individualismo». È
questo, scopriamo, un individualismo nuovo, un ritorno a un umanesimo
libero dalle catene del capitale, un individualismo socialista, se
l’espressione non suonasse come un ossimoro o un paradosso.
A profetizzare tutto ciò
è proprio il padre dei paradossi: l’irlandese Oscar Fingal
O’Flaherty Wills Wilde, che il 16 ottobre compirebbe il suo cento
sessantunesimo compleanno. Il «vero individualismo» di cui parla
Wilde nel suo saggio del 1891, dal titolo L’animo dell’uomo sotto
il socialismo – saggio che oltre ad essere incluso in innumerevoli
antologie, oggi trova spazio persino nella preziosa «enciclopedia»
marxista online (www.marxist.org) – è appunto libero di quella
proprietà privata colpevole di aver «impedito a una parte della
comunità di essere individualista, affamandola, e a un’altra,
dirigendola sulla cattiva strada». Che è poi la strada, mortifera
per Wilde, dell’accumulo. Riflessioni affini a quelle di un altro
intellettuale di cento anni dopo, questa volta sì un marxista, Terry
Eagleton, il quale, parlando con la sua proverbiale schiettezza di
una «ossessione per l’accumulo», collega la cultura del
capitalismo a una sorta di patologia che allontana l’uomo dalla sua
natura di essere relazionale e solidale.
Non solo dandy
La trita vulgata di tanta
critica più attenta alla forma che alla sostanza, ci ha consegnato
la figura di un Wilde raffinato esteta, lontano dalle bassezze della
vita quotidiana e sempre tendente alla pura bellezza. Per fare della
propria vita un’opera d’arte. Leggendone però l’opera nella
sua interezza – dalle prime prove poetiche alle lettere sul sistema
carcerario di cui era caduto vittima, dalle commedie brillanti dove
sono i cinici ad affascinare per la loro intelligenza, alla Ballata
dal carcere di Reading e al De Profundis – ci si accorge
che il suo interesse per il miglioramento della condizione umana
fosse tutt’altro che passeggero.
D’altro canto, è in
virtù di queste ambivalenze che Wilde non sembra passare mai di
moda. Lo dimostra un fiorire incessante di studi, all’estero, e
anche in Italia, dove i suoi scritti sono continuamente riproposti e
anche ritradotti. Solo un anno fa usciva per il Saggiatore
l’epistolario completo: una sua lettura — anche affrettata —
non può non far risaltare l’afflato umanitario e l’attenzione
verso le cause degli ultimi («per quanto spaventosi siano i
risultati del sistema carcerario… tuttavia non c’è tra i suoi
scopi quello di distruggere l’umana ragione…»).
Viene pubblicata in
questi giorni da Marsilio un’ottima edizione della sua prima
commedia, scritta un anno dopo il saggio sul socialismo. È la
commedia che lo portò al successo e lo proiettò, lui irlandese e
figlio di una fervente patriota nazionalista, alla ribalta dei
palcoscenici e dell’alta società inglese: Il ventaglio di Lady
Windermere (a cura di Paolo Amalfitano, pp. 277, euro 18). Si
situa sul solco del cosiddetto «teatro della restaurazione» che,
dopo la caduta di Cromwell, vide sulle scene londinesi un ritorno del
mondano, talvolta frivolo, ma sempre brillante – in reazione al
precedente oscurantismo puritano arrivato nel 1642 alla chiusura dei
teatri e alla messa al bando dell’intrattenimento.
La commedia di Wilde
gioca con sospetti di tradimento, segreti oscuri da non rivelare,
amori impossibili, e reputazioni da salvare. Il tutto condito dalla
efficace velocità di battute memorabili, e di una macchina teatrale
dai tempi e dal ritmo assolutamente perfetti. Per i pubblici di
allora e per quelli di oggi.
Sul palcoscenico, gli
attori di Wilde sembrano muoversi con la leggerezza di folletti
shakespeariani, ed è tramite questa levità che egli affronta
rapporti sociali complessi: matrimoniali, extraconiugali, ma anche
generazionali. Come il rapporto madre-figlio, ad esempio, nella
complicità originaria del legame nascosto tra Lord Windermere e Mrs
Erlynne, e in quello conseguente, di mutua segretezza, tra
quest’ultima e Lady Windermere.
A ben vedere, è la
società inglese, per Wilde, a essere un palcoscenico, esattamente
come per Shakespeare, che però ne ampliava i confini, nel suo Globe,
per finire ad abbracciare il mondo. L’Inghilterra di Wilde è il
paese visto da un quasi immigrato, da un esule, forse. All’arcinota
vicinanza della madre, Lady Speranza, alla causa dell’indipendentismo
irlandese ma anche al femminismo, si affianca, per completare il
quadretto di una famiglia assolutamente «non inglese» e non
conformista, l’impegno del padre, Sir William, nei confronti della
preservazione del patrimonio culturale dell’Irlanda rurale. Era un
patrimonio fatto di superstizioni e leggende, e minacciato dal
velocissimo declino, nell’ottocento, della lingua in cui veniva
articolato, l’irlandese appunto.
Il retaggio familiare di
Wilde, assieme al suo interessamento per le sorti dell’uomo rimasto
in balìa di forze, come quelle del capitale o dell’impero, che ne
minano l’autentico sviluppo, permette di leggere le sue commedie da
angolazioni ironiche, distaccate, mai complici. E se nel saggio sul
socialismo egli si schierava in difesa di una sorta di «umanesimo
individuale» capace di comporre il reticolo sociale come una
comunità di animi naturalmente solidali, così nelle commedie
dipinge la propria posizione, quella dell’artista, in contrasto con
i banali e disumanizzanti rapporti di potere, tipici di una certa
società bene dell’Inghilterra.
Dalle risate al
dramma
È una critica, la sua,
che poteva soltanto provenire da un outsider. Il critico Declan
Kiberd ricorda come, alla stregua dei filí (i poeti ereditari della
tradizione celtica irlandese) Oscar Wilde «iniziò sin da subito a
denunciare un’aristocrazia pusillanime non più interessata a
difendere gli spazi dell’arte».
Questo perché gli spazi
dell’arte, anche attraverso la risata, possono e devono aprire una
riflessione sull’umanità. Devono permetterci, dal fango, di
guardare le stelle.
In quest’ottica, il
frivolo ventaglio della commedia – quasi non notato, all’inizio,
dalla sua proprietaria, salvo poi rivelarsi la firma di un possibile
atto di adulterio – diviene un vero e proprio specchio posto
davanti agli occhi divertiti di un pubblico inglese, che ride alle
sue commedie ma solo per farsi beffe della propria comunità. E c’è
da immaginarsi che Wilde ridesse ancor di più, dietro le quinte o
nei gentleman’s club che ospitavano le altre sue famose tirate
teatrali. Perché, come s’è detto, per lo scrittore la vita era un
palcoscenico: un palcoscenico da cui, e di cui ridere.
A un certo punto,
l’irlandese Oscar Wilde, non rise più, in quell’Inghilterra che
con tanto ardore prima l’aveva elogiato e poi portato alla gogna.
Le vicende dei processi per diffamazione e omosessualità sono note,
come è nota la storia dei lavori forzati a cui fu condannato, e poi
l’esilio, questa volta non più privilegiato. Un esilio vero, che
tramutò Wilde improvvisamente in un reietto cittadino del mondo.
Prima Napoli, poi Parigi,
alla ricerca di una quadra. Ma i fasti di un tempo lasciarono
gradualmente il campo all’indigenza e alla disperazione. I suoi
ultimi giorni si persero freneticamente alla ricerca di un equilibrio
oramai scomparso, tra conti che non tornavano più e un senso della
vita smarrito. Abbandonò il palcoscenico dell’esistenza nella
solitudine, il 16 novembre del 1900. E lo fece in uno squallido
albergo parigino, alla fine di una commedia, la vita, che si era
trasformata in tragedia.
“il manifesto”,
16.10.2015
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